Attualità

Sulla nostra pelle

Roma, Ospedale Sandro Pertini, 22 ottobre 2009: Stefano Cucchi muore sette giorni dopo il suo arresto. Chi è Stato?

Con il finale tragico di un’assurda vicenda si apre il film Sulla mia pelle di Alessandro Cremonini, proiettato al cinema Politeama di Pavia il 15 settembre 2018 alle ore 21. Presenti alcuni redattori della rivista universitaria Birdmen; Milvia Marigliano, l’attrice che interpreta la madre di Stefano, e la sceneggiatrice Lisa Nur Sultan. Presentato alla 75ª mostra di Venezia nella sezione Orizzonti e reso disponibile su Netflix dallo scorso 12 settembre, il film racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, un ragazzo di trent’anni preso in custodia dallo Stato vivo e restituito alla famiglia morto. Fin dal suo rilascio, il film è stato al centro tanto di elogi quanto di polemiche.

La storia di Stefano Cucchi ha animato il dibattito pubblico per diversi anni, per questo, come ha spiegato Riccardo di Birdmen Magazine: “È un film che ha toccato tutti e ha risvegliato una memoria comune. Tutti associamo Stefano all’immagine del suo volto sfigurato e livido. Grazie al film quell’immagine si è attivata e ha iniziato a parlare.” Sulla mia pelle è un resoconto essenziale ed imparziale dei fatti e i dialoghi sono stati presi da testimonianze e atti processuali. Ma, pur avendo una dimensione cronistica, la faccenda giuridica e le emozioni sono ben amalgamate e non emerge nessun intento di creare un mito o fare propaganda.

Né assolti né colpevoli ma tutti responsabili. E anche lo spettatore si ritrova ad essere coinvolto, non osserva semplicemente, ma vive sulla sua pelle la vicenda indossando i panni di Stefano, dei familiari, dei medici, dei carabinieri. Personaggi reali, vivi, in carne e ossa, ma universali nella loro fragilità e nelle loro colpe e chi osserva si sente chiamato in causa: ora vittima, ora colpevole. Il pestaggio al centro della vicenda di Cucchi, e inevitabilmente del film, non viene mostrato ma accompagnato da un lungo silenzio. Come ha spiegato la sceneggiatrice Lisa Nur Sultan: “E’ stata fatta questa scelta, non solo per rispettare Stefano e la sua famiglia, ma perché volevamo essere il più possibile attinenti ai fatti che emergono dagli atti processuali. Il pestaggio era particolarmente difficile da riprodurre, dagli atti non ne emerge con chiarezza la durata e la modalità, ad esempio si può ipotizzare quale tra i carabinieri abbia iniziato per primo ma non ne abbiamo la certezza.”

La sceneggiatrice ha spiegato infatti come hanno svolto la ricostruzione dei fatti: “Siamo partiti dalle carte, abbiamo iniziato nel maggio 2016 e abbiamo letto oltre 10.000 pagine di processo, che è ancora in corso“.Infatti per ora nessuno è stato ritenuto responsabile della morte di Stefano Cucchi. Nel giugno 2013, la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Roma dichiarò assolti gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso, mentre i medici dell’ospedale Pertini furono condannati per omicidio colposo a causa del mancato soccorso.

Nel dicembre 2015 venne avviata una nuova indagine, condotta dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, e il 17 gennaio 2017 la procura di Roma ha accusato di omicidio preterintenzionale i tre carabinieri che arrestarono Stefano: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco. Secondo l’inchiesta Cucchi fu picchiato dai tre carabinieri che lo arrestarono e morì in seguito a quelle lesioni. Secondo le indagini Cucchi fu colpito a “schiaffi, pugni e calci” che causarono “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” e “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte“.

Come emerge bene dal film, nonostante le gravi lesioni procurate, Stefano aveva deciso di rifiutare le cure; non perché non volesse essere curato, ma perché gli era stato negato un diritto fondamentale: quello di poter parlare con il suo avvocato. Milvia Marigliano ha spiegato: “Nel film emerge l’animo fragile della tossicodipendenza. A volte Stefano non ha saputo e voluto farsi aiutare. Arriva in ospedale e si convince che la sua vita non ha valore.

E’ una storia di sensi di colpaspiega la sceneggiatrice– come nei romanzi i Kafka. Stefano si sente in colpa per aver tradito la fiducia della sua famiglia e la sua famiglia per non averlo aiutato a salvarsi. Ma il film, non vuole essere un film di denuncia o di martiri, nella sua precisione non condanna né assolve nessuno. Il regista ha detto: non voglio che Stefano sia il Gesù Cristo in croce. Io voglio occupami dei ladroni“.

E guardando il film riecheggiano le parole di Fabrizio De Andrè, rivolte a tutti noi: se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento… anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.

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