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Stranger Things 2 non continua ma si sdoppia

Nei videogiochi si chiama backtracking (letteralmente controllo a ritroso) il meccanismo che costringe il giocatore a ripercorrere un livello già fatto ma al contrario. Chi gioca molto ai videogiochi sa bene che la differenza tra un gioco ben fatto e uno noioso è proprio la riuscita di tale meccanismo. Se infatti il giocatore, ripercorrendo un livello già fatto riesce comunque a sorprendersi e a scoprire qualcosa che prima non aveva visto, sarà soddisfatto di un gioco che, mantenendo pressoché inalterati l’ambientazione e il contesto, saprà ancora ripetutamente stupire. A visione conclusa della seconda stagione di Stranger Things due cose possiamo affermare con certezza: la prima è che la serie riconferma, pur non senza sbavature, l’ottimo livello qualitativo della prima; la seconda che i fratelli Duffer hanno giocato a tantissimi videogiochi e di quelli belli.

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Le vicende narrate in questa stagione ripartono esattamente un anno dopo la conclusione della prima. Will è tornato ma non è proprio lo stesso, Undici invece no ma non è perduta, Mike la cerca disperatamente mentre Dustin e Lucas hanno il difficile compito di tenere alto il morale del gruppo. Da qui in poi le molteplici storie dei protagonisti progrediscono ma invece di avanzare verso nuove frontiere narrative la serie si sdoppia e curiosamente torna indietro sui propri passi. Il ritorno è di fatto il tema portante dell’intera serie e ogni episodio lo sviscera (ora metaforicamente, ora letteralmente) in maniera diversa e sempre originale. Scopriamo allora le conseguenze del ritorno di Will, ora un personaggio decisamente centrale e non più un’eccellente assenza, interpretato da un Noah Schnapp sorprendente e terrificante. Gaten Materazzo e Caleb McLaughlin, rispettivamente Dustin e Lucas, si riconfermano interpreti di grande calibro e in particolare il primo, apparentemente “condannato” a un ruolo monodimensionale regala momenti di alto livello recitativo. Decisamente sottotono invece Finn Wolfhard che tranne per il finale è prevedibilmente messo da parte rispetto agli altri membri del gruppo.

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Dicevamo che la storia si sdoppia e si inverte e lo fa a molti livelli. Si sdoppia perché le vicende di Undici, una Millie Bobby Brown ancora fenomenale, sono slegate dal resto del gruppo e pure lei dovrà tornare indietro, nel suo caso dove tutto è iniziato, e affrontare i demoni (e i demogorgoni) che minacciano la sua e altrui esistenza. Torna indietro Nancy, la cui interpretazione di Natalia Dyer ci regala uno dei migliori e carismatici personaggi femminili adolescenziali che il mondo ricordi. A lei è affidato il difficile compito di mantenere l’equilibrio tra il mondo distaccato degli adulti e quello iperattivo dei ragazzi e per farlo dovrà tornare a uno stadio precedente del proprio essere nel quale molte, troppe cose sono state sepolte sotto un tappeto di presunta felicità.  Attorno a lei ruotano Joe Keery (Steve) e Charlie Heaton (Jonathan) ai quali gli sceneggiatori hanno riservato delle evoluzioni inaspettate e mature. Tornano indietro gli adulti come lo sceriffo Hopper, un sempre più convincente David Harbour, e Joyce. Quest’ultima nella prima metà della stagione pressoché invariata rispetto a un anno fa, deflagra in tutta la sua forza drammatica verso la fine con una potenza che solo un’attrice del calibro di Winona Ryder è in grado di dare.

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Se Stranger Things è ineceppibile dal punto di vista tecnico diversa è la situazione per quanto concerne l’impianto narrativo. Si ha l’impressione infatti a visione conclusa di una generale carenza d’idee o, più probabilmente, di un mancato coraggio a innovare. Proprio perché la storia non continua ma si sdoppia è inevitabile che dopo qualche episodio si abbia la sensazione di aver già vissuto alcuni momenti e snodi fondamentali non solo tra prima e seconda stagione ma anche tra episodio e episodio. I problemi poi sorgono maggiormente con un settimo episodio certamente divisivo (ma non pessimo come sostengono molti) e maldestro. Cautela degli scrittori forse o semplice inesperienza dei registi ma a causa di questi scivoloni la serie è costretta a investire molto e non sempre benissimo su meta-temi come ad esempio il concetto di “mostro, i quali sono spesso affidati alle nuove leve della serie come Sean Astin nel ruolo di Bob (ve lo ricordate Samwise dal Signore degli Anelli?), e Dacre Montgomery, la cui interpretazione di Billy, fratellastro di Max, aggiungerà il fattore credibilità a una serie che punta tutto sull’incredibile. In sostanza il mostro è un punto di vista, non solo soggettivo, ma sicuramente variabile e mutevole e per questo pericoloso. A completare il tutto ci pensa una colonna sonora avvolgente. Se da un lato le musiche di Michael Stein e Kyle Dixon compartecipano attivamente allo svolgersi degli eventi (al punto tale che quando nell’episodio 8 per qualche minuto la musica è assente si avverte un profondo senso di vuoto), dall’altro la scelta dei brani di accompagnamento non fanno altro che rafforzare quell’effetto nostalgia del quale la serie si nutre.

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Stranger Things 2 riconferma comunque quanto fatto l’anno scorso dai fratelli Duffer. Ogni episodio, personaggio e colpo di scena meriterebbe un’analisi a sé ma se proprio dobbiamo trovare una chiave di lettura il più possibile sintetica di tutto soffermatevi a quanto detto all’inizio. Stranger Things si sdoppia e torna indietro, si biforca e inverte la propria direzione per offrirci nuovi punti di vista e sconvolgenti rivelazioni. Proprio come il Sottosopra.

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