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Stop hate for profit: il prezzo dell’odio sui social

Sulla scia delle proteste antirazziste che hanno investito come un’onda gli Stati Uniti per poi propagarsi globalmente, è nata #StopHateForProfit, una petizione contro l’hate speech e la disinformazione su Facebook. La petizione ha raccolto l’adesione di aziende importanti quali Patagonia, Levi’s, Mozilla, North Face, Ford, Coca Cola, Starbucks e Adidas. 

Il messaggio del boicottaggio, si legge sul sito di Stop Hate For Profit, è quello di non lasciar credere a Facebook che i suoi profitti valgano la promozione di contenuti d’odio, intolleranza, razzismo, antisemitismo o violenza. Così centinaia di aziende hanno smesso di usufruire delle Facebook Ads, gli strumenti a pagamento per le campagne di social marketing che rappresentano il 70% dei profitti della piattaforma.

Facebook è accusato di aver permesso l’incitamento alla violenza contro i manifestanti del movimento Black Lives Matter (“Quando cominciano le razzie, cominciano anche le sparatorie” aveva pubblicato Donald Trump in un post) e di aver classificato come “fonti sicure” testate come Breitbart News e The Daily Caller, ben sapendo che entrambe hanno avuto come collaboratori noti suprematisti bianchi.
In passato la politica di assoluta neutralità del social, caldamente difesa dal CEO Mark Zuckerberg, aveva già suscitato perplessità. Tuttavia, non si era mai verificato nulla di paragonabile a #StopHateForProfit: le 900 aziende che hanno aderito hanno rinunciato alle Facebook Ads per l’intero mese o, addirittura, stando a quanto dichiarato da North Face, fino a quando non saranno messe in atto politiche più restrittive in merito alla circolazione di contenuti di hate speech.

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Il logo di Stop Hate For Profit

Questo gesto va però interpretato nella sua complessità: alcune multinazionali che hanno aderito alla campagna, ad esempio la Coca Cola Company, speculano sui paesi più poveri del mondo e sono colpevoli di deturpazione dell’ambiente, sfruttamento di risorse idriche e  violazioni dei diritti dei lavoratori. La loro adesione appare dunque, più che una questione di etica, una scelta di marketing.

Le ragioni della campagna Stop Hate For Profit sembrano essere, comunque, largamente condivise. E’ piuttosto evidente, in effetti, da anni che ci siano problemi strutturali alla base dei social network – basti pensare al ruolo che ha avuto Facebook nello scandalo di Cambridge Analytica, la società di consulenze britannica che ha sfruttato in modo controverso l’analisi dati per influenzare le campagne elettorali americane del 2016 e di Brexit nel 2017. Lo scandalo era stato aperto nel 2018 dal New York Times e da The Observer: Cambridge Analytica aveva acquisito da Facebook le informazioni personali di 50 milioni di utenti statunitensi senza la loro diretta autorizzazione, per poi elaborare a seconda dei loro profili messaggi personalizzati. Sfruttando bisogni, paure e convinzioni dedotte da quei dati, la società britannica ha potuto manipolare l’opinione pubblica per scopi di propaganda politica. In risposta, Facebook aveva bandito Cambridge Analytica dalla pubblicità sulla sua piattaforma, ma il Guardian ha poi sostenuto che il social sarebbe stato a conoscenza dei fatti già da due anni e non avrebbe fatto nulla per proteggere la sicurezza dei propri utenti.

Lo scandalo di Cambridge Analytica ha reso evidente la pericolosità delle campagne di disinformazione mirate e la regolamentazione dei social è diventata un tema di attualità politica. Anche quest’anno si è tornati a discuterne: la pandemia di Coronavirus è stata accompagnata da un’ondata massiccia di informazioni false o fuorvianti, compresi i tentativi da parte di soggetti stranieri di influenzare i cittadini e i dibattiti pubblici nell’Unione Europea. La task force East StratCom del SEAE (Servizio europeo per l’azione esterna) ha individuato e denunciato sul sito web EUvsDisinfo più di 550 narrazioni di disinformazione provenienti da fonti pro-Cremlino: una di queste sosteneva che l’Ucraina avesse acconsentito ad un ipotetico genocidio dei cittadini ucraini attraverso il Covid-19 in cambio di prestiti dal Fondo Monetario Internazionale.

Il CEO di Facebook Mark Zuckerberg al processo per il caso Cambridge Analytica, nel 2018. (Foto via AP / Pablo Martinez Monsivais)

Chiaramente, non vi è alcuna prova che confermi le teorie complottiste russe, alimentate puramente dall’astio di Mosca verso le correnti filo-occidentali presenti in Ucraina, e che mirano, più in generale, a screditare la credibilità dei Paesi fuori dal controllo del Cremlino. Il tema dell’odio online è strettamente connesso a quello della disinformazione, poiché spesso vengono utilizzati concetti falsati per sostenere posizioni razziste, omofobe o xenofobe.

La Commissione Europea ha recentemente elaborato un “Piano di azione contro la disinformazione”: si tratta di un regolamento volto a migliorare le capacità di individuare e denunciare la disinformazione, potenziando risposte coordinate e comuni, anche attraverso l’autoregolamentazione degli stessi social. Tra il 2018 e il 2019 Facebook, Twitter, Microsoft, Mozilla e le associazioni di categoria che rappresentano le piattaforme online hanno firmato il codice di buone pratiche, uno strumento che dovrebbe vederli impegnati nel controllo sugli account falsi e nell’eliminazione di quelli che contribuiscono a diffondere fake news sui social o nel web. Mark Zuckerberg, durante il processo sullo scandalo Cambridge Analytica, aveva addirittura affermato al Congresso che ci sarebbe stato un ampio cambiamento “filosofico” nell’approccio alla responsabilità dell’azienda, e che i contenuti violenti, illeciti o fuorvianti sarebbero stati soppressi.

Ma la campagna Stop Hate For Profit ha risollevato la vera criticità insita nella questione: il pluralismo di opinioni deve continuare ad essere universalmente salvaguardato o, in virtù dell’enorme rischio che comporta, può essere sottoposto ad una forma di censura de facto?

L’illustrazione in copertina è di Sébastien Thibault

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