STEVE KERR: IERI, OGGI E TRA UNA SETTIMANA
Oakland, California. Sulla San Francisco Bay si è scatenato un terremoto di dimensione inaspettate.
Tranquilli. Nessuno si è fatto male. Anzi. Sembrano divertirsi tutti nella baia. Un po’ meno nel resto degli States.
Già, perché la terra trema: i Golden States Warriors sono pronti a entrare nei Playoff NBA dopo aver fatto corsa a sé nella Regular Season, come i più classici teenager che al campetto sotto casa si prendono gioco dei “pischelli” più piccoli e meno dotati.
A guidare il “sottomarino giallo” c’è il biondo che impegna (giocatori e avversari): Steve Kerr, head coach di Steph Curry e compagni.
Ma andiamo con ordine.
Prendiamo un attimo la Delorian e torniamo al 1995.
Chicago, Illinois. Michael Jordan is in da house. È la stagione successiva al suo ritorno dopo la parentesi nel baseball. Nuovi giocatori e parecchia carica agonistica nello spogliatoio della Windy City. Qualcosa deve succedere. E, infatti…
Sessione di allenamento. Più movimentata del solito. Già, perché a un certo punto, ai due angoli, inizia il match:
da una parte un’atleta, anzi, l’Atleta: 1,96, 40 milioni di contratto con gli sponsor e otto guardie del corpo all’arrivo alla partita; dall’altra parte un bianco, 1,85, 800 mila di ingaggio e metropolitana per arrivare alla partita. Di uno bastano le iniziali, MJ, dell’altro si sa che ha sangue irlandese, il che per sua sfortuna non servirà a molto: il destro di Steve Kerr prende l’aria, quello di Michael frantuma il volto del suo compagno. Jordan se ne va, senza parlare con nessuno, e alla sera telefona a Kerr dicendogli: «Mi dispiace, devo dirti la verità: mi sento malissimo». Già, perché Michael sa che Steve sa fare due cose, ma le sa fare bene: lo rispetta e per questo vuole vincere insieme a lui.
1995, titolo Bulls. 1996, regular season: 72-10, record ogni epoca. Chicago arriva in finale NBA, a cercare di impedire l’inevitabile ci sono, però, gli Utah Jazz di John Stockton (il “muto” che oggi detiene i record ogni epoca per numero di assist, di palle rubate, di percentuale di tiro per una guardia e di doppie-doppie con punti e assist – 709, segue Steve Nash a 436) e Karl Malone (The Mailman, “il postino”, all’epoca MVP della stagione regolare).
Gara 6, United Center, Chicago. Bulls in vantaggio 3-2 nella serie, ’20 secondi alla fine, pari 86. Phil Jackson chiede time out. L’ordine è chiaro: «Palla a Michael». Jordan si gira verso Kerr e gli dice: «Be ready!». Steve lo guarda e il più forte giocatore al mondo gli dice: «Stockton verrà a raddoppiare su di me e ti lascerà solo, sii pronto!». «Lo sarò, Michael». Pippen per MJ, il 23 ha la palla fino a quando chiude il palleggio e, mentre Stockton arriva a raddoppiare, fa un passo in avanti e fa uscire la palla dalle mani. Steve riceve. Due punti. Storia.
Già, perché il basket è uno sport di squadra. E Kerr lo sa. Cinque titoli da giocatore, tre con i Bulls e due con gli Spurs. Allenato da due dei più grandi coach della storia del gioco: Gregg Popovich (di cui – se interessa – ho scritto in precedenza) e Phil Jackson. Quest’ultimo, con 11 anelli, il più vincente di sempre. Ma anche l’uomo che appena arrivato a Chicago disse a Jordan: noi giocheremo la sideline triangle e la mia visione del sistema è: «Tai Chi a cinque, in movimento. E tu, sei il centro dell’energia».
Perché per qualunque giocatore, qualsiasi sia il proprio talento o, nel caso di MJ, l’onnipotenza, il gioco di squadra è tutto.
Vent’anni dopo, Kerr lo sa bene.
È al primo anno da head coach -anzi, non solo, è il miglior head coach debuttante record alla mano – ma sembra che in vita non abbia fatto altro che allenare. Lavagnetta per disegnare i giochi da una parte e game plan nella tasca interna della giacca. Una vittoria dopo l’altra i Golden State Warriors si candidano come una delle (forse, la) favorite al successo finale. Una cavalcata imperiosa, condizionata da un aspetto fondamentale: la gestione della squadra.
Già, perché gli Warriors, oltre ai vari Steph Curry (possibile, probabile, MVP della lega), Klay Thompson (se riuscite, cercatevi il suo “jordanesco” terzo quarto nella partita vs Sacramento del 23 gennaio di quest’anno), le rivelazioni Barnes e Green, oltre al muro difensivo Bogut, può contare su un’invidiabile panchina: David Lee, Shaun Livingston, Mareese Speights, Leandro Barbosa e la medaglia d’oro a Londra 2012 Andre. Precisando che in una lega dal carattere – per usare un aggettivo secondo me congruo – “individualista”, ciò non è affatto cosa scontata.
Distribuzione dei minuti tra i giocatori nel roster e un gioco efficace e spettacolare. Infatti, potendo contare sul talento di titolari e riserve, Steve Kerr ha creato un sistema perfetto: partendo da una difesa aggressiva, collettiva, ricca di aiuti ed enorme sacrificio, si arriva (spesso in transizione o contropiede) dall’altra parte. Inoltre, potendo contare su grandissimi (Curry e Thompson due tra i migliori -senza esagerare – di sempre) tiratori da 3, il gioco è, oltre che per i già citati “efficace” e “spettacolare”, anche innovativo.
Steve Kerr ha appreso molto anche dalla sua esperienza come General Manager dei Phoenix Suns di D’Antoni e Nash: la loro pallacanestro “Seven second or less” (di cui – sempre se interessa – ho accennato in precedenza) era basata su transizione, attacchi veloci e tiro da tre.
Ma se la squadra dell’Arizona, sprovvista di una buona panchina e di una qualsivoglia volontà o tendenza a difendere, si è dovuta “accontentare” di cambiare irreversibilmente il gioco; Golden State, forse, è pronta al grande passo.
Già, anche perché la presunta (?) mancanza d’esperienza di Steve Kerr – quantomeno da capo allenatore – è ampiamente compensata (sempre nel caso debba esserlo) dalla sua enorme umiltà. Al suo fianco, infatti, siedono dei professionisti della materia:
Alvin Gentry – allenatore in seconda, ma considerato uno dei migliori (capo) allenatori della pista all’interno del mondo NBA;
Ron Adams – ex responsabile della difesa di coach Tom Thibodeau, attuale capo allenatore dei Chicago Bulls, considerato (numeri a confermare) il miglior allenatore difensivo della lega (guardare le ultime quattro stagioni di Chicago, senza constare l’attuale, disastrosa; la prima senza il sovra-citato Adams, non che sia l’unica spiegazione, ci mancherebbe);
e Luke Walton – ex giocatore dal QI cestistico da far invidia a Einstein, due volte campione con i Lakers (manco a dirlo!) di Phil Jackson.
Esattamente come per la gestione della panchina, nemmeno questo è scontato. Perché Steve Kerr è pur sempre un esordiente reduce dalla precedente stagione in cui lavorava come commentatore per ESPN. Eppure tutto ha funzionato (per ora). Forse anche grazie alle capacità diplomatiche che Kerr pare aver ereditato dal padre, Malcolm Kerr, diplomatico libanese presso l’ambasciata americana (ucciso nel ’84, quando Steve non aveva ancora compiuto vent’anni).
Non resta quindi che aspettare Steve Kerr e i suoi (più che mai) Golden State Warriors, manca solo una settimana al momento della verità: i playoff nel Far West della Western Conference.
Non so chi alla fine di questa lunga corsa vincerà (e se proprio devo dirla tutta, non voglio saperlo, voglio scoprirlo, partita dopo partita), ma di una cosa sono certo: Steve Kerr ci ha fatto divertire. E tanto.
Ma la cosa migliore è anche la mia unica certezza: il meglio deve ancora venire.