Un compromesso: “Si muore tutti democristiani”
Può un film che parla di compromessi risultare alla visione esso stesso un compromesso? A quanto pare sì e il Terzo Segreto di Satira, dopo sette anni di comicità televisiva e via web, tenta la strada del grande schermo con un film che può vantare una storia potenzialmente molto interessante a scapito di una regia non molto istruita e di una scrittura che non osa mai. Ma “Si muore tutti democristiani” non è affatto un brutto film, anzi nella sua per quanto tollerabile ingenuità tecnica, fa sfoggio di molte scelte indovinate, tra il sapiente citazionismo e alcune coraggiose innovazioni. A ben guardare, sono tre i livelli sui quali il film del collettivo di satira milanese può essere analizzato.
Il primo livello, una sorta di autobiografia degli autori stessi, risulta piacevole e familiare alla visione, pur senza mai regalare momenti particolarmente esaltanti o brillanti. Enrico, Fabrizio e Stefano sono tre amici e videomaker che aspettano da tempo di trovare l’occasione giusta per sfondare nel mondo del cinema sociale con un documentario sulla condizione dei profughi africani. Occasione che arriva, ma presto i tre amici dovranno fare i conti con un potenziale scandalo che riguarda proprio l’associazione che potrebbe assumerli. È a questo punto che la storia si fa interessante con le vite dei protagonisti che piano piano si dividono, rivelando difetti e debolezze dello stoico Enrico (un bravo Walter Leonardi), del romantico opportunista Fabrizio (un tenero Massimiliano Loizzi) e del volubile Stefano (un discreto ma a tratti sorprendente Marco Ripoldi).
Il secondo livello, e chiaramente quello più intuibile già dal titolo, è il classico manifesto di satira sociale. Le frecciatine all’attualità risultano indovinate e argute quando si parla delle micro-realtà dei personaggi (“forse sono di sinistra soltanto perché ho fatto il classico”) ma non possono fare a meno di scadere nei luoghi comuni quando si prova a dare un’impostazione globale o quantomeno più allargata. I riferimenti alla politica attuale del nostro paese ci sono e ben poco velati, ma a parte qualche riflessione degna di nota, gli autori non raggiungono mai le vette ben più caustiche dei loro lavori precedenti in televisione, e questo è strano, dato l’ottimo livello di partenza. Si ha la sensazione, il più delle volte, che gli autori non sviluppino mai a fondo un’idea o un pensiero per paura di distaccarsi troppo dalle vicende personali dei protagonisti. L’unica analogia veramente riuscita è quella dell’ombrello, con punte di vera e propria poesia satirica e degli echi quasi oraziani nel terzo atto e con l’apparizione speciale di Cochi Ponzoni come ciliegina sulla torta.
Il terzo e ultimo livello, quello della commedia, è indubbiamente il meno riuscito. Dal punto di vista puramente tecnico il film non brilla mai. Soprattutto il montaggio risulta alle volte troppo “scolastico” e ciò influisce negativamente sul ritmo. Chi si aspetta una commedia brillante rimarrà deluso: il film strappa molti sorrisi, ma mai una risata vera e propria, salvo forse per una scena nel secondo atto che, guarda caso, è una citazione molto arguta a Paolo Villagio (per la precisione a “Fantozzi subisce ancora” del 1983). Ma a parte per quella, il film non si distende mai, non c’è mai una vera e propria catarsi ma solo una lenta discesa alla rassegnazione, intervallata da qualche digressione più o meno appropriata. Prevedibilmente e come suggeriscono i tempi, a uscirne positivamente sono le donne, non perché le loro posizioni siano le più condivisibili ma perché sono le più coerenti. Da Valentina Lodovini a Martina de Santis passando per Brenda Lodigiani, queste tre grazie cinematografiche incarnano a loro modo le virtù che alle loro controparti maschili sembrano mancare. La loro è una presenza costante ma mai centrale ed è un peccato data l’importanza che esse assumono nel corso della storia (in particolare Sara, il personaggio della Lodovini, che nel terzo atto ci regala un monologo di pregnante attualità).
Unica vera sorpresa è uno scoppiettante Francesco Mandelli nei panni di un odiosissimo bauscia. La sua è forse l’interpretazione più iconica e gustosa oltre che la più riuscita. Mandelli dà prova di possedere una grande padronanza della gestualità e espressività richiesta dai grandi interpreti e mai come in questo film si ha l’impressione di avere davanti un potenziale trickster all’italiana. Per il resto il film diverte a tratti e fa riflettere molto ma manca quella coesione, o se preferite quella coerenza, narrativa che permetta a un insieme di corti satirici di essere un riuscito film di introspezione sociale. La sensazione è che si sia cercato il compromesso tra sketch e lungometraggio. In maniera, ovviamente, molto democristiana.