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ROMA, LA BELLEZZA E GLI HOOLIGAN

Roma non è una città. Ci sono stato l’anno scorso, ospite per svariati giorni di alcuni parenti. Uno zio cicerone mi ha condotto attraverso la città e la sua storia, che poi sarebbe la nostra, e una zia mi ha accolto come parte della famiglia. Roma è qualcosa di diverso dal resto d’Italia, il che significa che si discosta, e di molto, dal resto del mondo. È una città nella quale se ci sei non puoi starci lontano, è impossibile: ti pervade di ogni suo racconto, sensazione artistica e ondata di cultura. Ma viverla, per alcuni giorni, con i romani, che la conoscono e, nonostante ciò, o proprio per questo, continuano a restarne ammaliati è qualcosa che nessuna guida turistica o di museo può regalarti.

Ricordo, ad esempio, nel quartiere dove vive, incontrare un compagno romano e salutarlo:

«Aó, ma sta Maggica?»

«Eh, che te devo dì, speriamo»

«Basta che nun me diventi dea Lazio»

«Ma che, forza Maggica!».

Come ogni città di cultura che si rispetti, Roma respira di sport. È una sensazione di appartenenza, di condivisione, che nulla ha a che vedere con ogni centesimo di violenza e d’odio speso in uno stadio. O fuori.

Eppure a ogni derby, a ogni partita contro una squadra rivale, ogni volta che un tifoso alza un po’ il gomito, si finisce sulle pagine di cronaca. Non certo quella calcistica. E a rimetterci, come sempre, sono i tifosi e la competizione rovinata. Oppure, come settimana scorsa, perfino “La barcaccia” dei Bernini. Il monumento in travertino in Piazza di Spagna ha subito, citando dalla dichiarazione della Sovrintendenza ai Beni Culturali, «Un danno grave anche perché permamente». Con un “ringraziamento” speciale che va ad alcuni hooligan del Feyenoord, qualche questore che ha sottovalutato la questione e a tutti i politici che hanno preso d’assalto l’Ansa.stemmahooliganaroma

Il tutto mi porta a pensare che siamo una nazione troppo ricca di storia e di cultura per, allo stato attuale delle cose, riuscire a gestirla. Parlo sia del calcio che del nostro patrimonio cultuale. Due tradizioni che, con i dovuti distinguo (e ci mancherebbe), dovrebbero rappresentare al meglio la bellezza italiana. Da un lato l’arte, mostrando quella che è cultura, civiltà e senso di appartenenza (non verso la storia di una penisola, ma al contributo che questa ha dato all’umanità); dall’altro il calcio, una competizione sportiva e, come tale, all’insegna del rispetto e della lealtà tra le differenti squadre e supporters.

Dunque, un’occasione persa. L’ennesima. Non l’ultima.

Perché in fondo sembriamo non essere abituati a tutto questo, non riusciamo a venire a capo di tutto ciò che ci ritroviamo. Non sappiamo gestire la nostra passione per il calcio e nemmeno siamo in grado di proteggere il nostro patrimonio culturale (sì, dagli altri, ma pure, e soprattutto, da noi stessi). Perché in fondo ci limitiamo a dire: «Almeno non è morto nessuno…»; e se muore qualcuno dire, sempre e comunque, che sarà l’ultimo: in fondo, quante persone si ricordano di Ciro? E quante di Raciti, per citare un esempio?

E poi perché? Abbiamo il patrimonio artistico più importante del mondo, riusciamo a respirare la storia ogni volta che andiamo in una diversa città, viviamo nella bellezza; perché dovremmo sempre accontentarci che non sia accaduto il peggio?

Così, quando tornerò a Roma, dopo aver visto con mio zio gli highlights della partita, come accadeva puntualmente dopo una giornata di Champions o campionato, mettendoci a parlare un po’ di questo sport che ci piace così tanto, quando lui mi chiederà: «Stasera allora andiamo in centro?», io gli risponderò: «Certo, sono a Roma, che dovrei fare, mettermi in poltrona a guardar la partita?!». E, probabilmente, se io gli facessi la stessa domanda, lui mi darebbe esattamente quella risposta. Perché prima che romanista, lui, è romano.

Anche se senza a Maggica nun ce sta!

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