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“Robert Doisneau – pescatore di immagini” – intervista al curatore Piero Pozzi

Robert Doisneau è conosciuto come uno dei più celebri fotografi dell’intero Novecento. Nato a Gentilly il 14 aprile del 1912, scoprì la fotografia da giovane, mentre lavorava in uno studio pubblicitario. Anni di esperienza nel catturare attimi di quotidianità per le vie di Parigi lo fecero autore di un incredibile numero di opere (almeno 450.000) che, dagli anni ’70, dopo i primi grandi riconoscimenti ed importanti esposizioni, vengono stampate e vendute in tutto il mondo. Dal 14 ottobre è esposto in una mostra comprendente 70 delle sue opere più celebri, a Pavia nel Broletto. L’intera mostra è stata organizzata dall’Atelier Robert Doisneau, in collaborazione il professor Piero Pozzi e prodotta da Di Chroma Photography e ViDi – Visiti Different, con l’ausilio della Fondazione Teatro Fiaschini e il Comune di Pavia.

Ho avuto l’immenso piacere di porre alcune domande al co-curatore della mostra, il professor Piero Pozzi, che con grande gentilezza ci ha parlato dell’universo di questo artista e della mostra che lo fa rivivere.

Innanzitutto, chi era Robert Doisneau? Perché lo si ritiene “il più grande fotografo del Novecento”?

È sicuramente un fotografo molto importante, che col tempo si sta rivalutando sempre di più. Nasce nel 1912 e inizia ad approcciarsi alla fotografia fin da ragazzo. Subito dopo le scuole ha avuto l’occasione di fare fotografie ed era quello l’unico lavoro che corrispondeva al suo desiderio. Inizialmente ha trovato un lavoro stabile presso le Officine Renault, ma si fece licenziare. Questo licenziamento però è stato l’inizio di una vita e di una fotografia più libera, che amava ritrarre Parigi, le sue periferie e alcune scene di vita che hanno fatto di lui il fotografo che ricordiamo ancora oggi. Quelle che vediamo nella mostra, nei libri, sulle stampe sono le foto più professionali, quelle che faceva per sé stesso. A tal proposito, mi piace ricordare la risposta che diede quando gli chiesero: “Perché fai foto che nessuno ti chiede?”. “Ma che domanda stupida!” disse.

“Pescatore di immagini” è il titolo della mostra. Perché è opportuno definirlo in questo modo?

Il titolo deriva da una frase che lui stesso disse durante un’intervista, in cui parlando della sua storia ricordava che da giovane andava spesso a pescare. L’esercizio della pesca gli aveva insegnato la pazienza, un elemento molto importante per capire la sua fotografia. I suoi scatti, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, nascono da lunghe attese: infatti, lui amava identificare delle situazioni, dei luoghi in cui sarebbe potuto succedere qualcosa, posizionarvi la macchina fotografica e aspettare che accadesse per catturare il momento.

Cosa si intende per “fotografia umanista” e perché ne è ritenuto il principale esponente?

Il termine fotografia deriva dal greco photos, “luce” e graphia, “scrittura”, quindi una “scrittura di luce”, ma che è anche un racconto. Ogni immagine colta da Doisneau è un racconto al cui centro vi è la vicenda umana con le sue storie, l’ironia e la capacità di ascolto di Doisneau.

La prima parte della mostra è giocata sugli sguardi: Doisneau ha fatto una serie di scatti, molti, in cui inquadra qualcuno che guarda qualcosa che sta succedendo. Inoltre il fotografo stesso è presente alla scena e la cosa è interessante perché è come se fotografando stesse svelando il suo gioco. Tutto ciò per trasmettere l’idea secondo cui la vita è un grande spettacolo, un teatrino in cui tutti siamo spettatori. La seconda parte della mostra è legata a Parigi: angoli, strade, piccole scene, veri e propri quadretti di vita parigina. La terza parte è giocata invece sull’ironia del suo sguardo, altra caratteristica fondamentale della sua opera. Successivamente si giunge ad una parte sui bambini e sui loro giochi nelle scuole o nelle periferie. Infine, l’ultima parte è dedicata agli innamorati e si conclude con il famoso Bacio.

Mi piace pensare che qualcuno, guardando e rivedendo le sue opere, si renda conto che Doisneau è particolare e diverso da altri fotografi a lui contemporanei. La sua fotografia è molto personale, lascia venir fuori delle piccole storie su uno sfondo parigino. L’intera mostra è strutturata in modo da far parlare lui stesso in prima persona.

Perché l’idea di esporre qui a Pavia?

Pavia è una città viva, interessante. I suoi ritmi sono scanditi dai giovani, dagli studenti. Per questo ha un senso riproporla qui.

Le sue opere sono spesso protagoniste di mostre in tutta Italia. Perché, secondo lei, qualcuno dovrebbe rivederle?

È un po’ come quando si ascolta una canzone, una musica, si guarda un film o si legge un libro. Quando si trova un brano interessante, si tende a comprenderlo sempre meglio man mano che lo si riascolta. Ciò accade anche riguardando un film: si colgono molti più particolari, dettagli, intenti. Insomma, citando anche Platone: “il vero conoscere è riconoscere”. Rivedere l’opera di Doisneau permetterebbe di capirla meglio, di conoscerla in modo più profondo e scoprirne più dettagli e particolari. 

E chi ancora non lo conosce cosa dovrebbe aspettarsi da questa mostra?

Da insegnante di ragazzi tra i 17 e i 24 anni circa, noto come questi siano ormai proiettati dentro la nuova tecnologia; ho la netta sensazione che loro vivano appieno il proprio presente e che riescano invece a comprendere a fatica “l’altro ieri”. Perché di questo si tratta: la fotografia di Doisneau si colloca tra gli anni ’50 e gli anni ’70, epoca non poi così lontana, che possiamo rivivere e anche scoprire attraverso questi scatti. Si può quindi scoprire come queste “storie dell’altro ieri” abbiano ancora una propria spendibilità e validità. Non a caso, la cosa bella dei grandi autori, nell’arte come nella letteratura – ad esempio – è che hanno saputo cogliere così bene l’espressione umana da rendere la propria opera senza tempo e sempre valida. Chi vive nell’oggi può quindi guardare come attraverso una finestra e scoprire che questo tempo è molto più vicino e interessante di ciò che immagina.

Citando nuovamente Doisneau: “Io non fotografo la vita reale, ma la vita che mi piacerebbe che fosse”. Con la sua fotografia voleva raccontare ciò che gli piaceva e ciò che avrebbe voluto vivere. Mostra una realtà che ci fa rendere conto che il mondo in cui viviamo non è poi così male. Partecipando alla mostra, si porta a casa un pizzico di serenità, buon umore, ironia, capacità di sorridere e soprattutto la capacità di guardare alla vita come qualcosa che ha un valore.

 

A “fare da ponte” tra ViDi e l’Atelier di Doisneau, gestito dalle figlie dello stesso fotografo, è Anne Morin. Il professor Pozzi parla della sua collaborazione con ViDi cultural e l’Atelier di Doisneau con grandissima soddisfazione. Essa nasce quasi casualmente e continua oggi come un rapporto di fiducia e stima reciproca. ViDi ha il pregio di curare sempre mostre un po’ diverse dalle altre, in quanto si occupa di creare un percorso di immagini in grado di dar vita ad un discorso corale; inoltre realizza incontri con insegnanti e ragazzi, percorsi per bambini e famiglie. Un’esperienza, quindi, che si consiglia a tutti.

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