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“Resto qui”, recensione al secondo classificato Premio Strega

Quando si parla di fascismo, di Guerra Mondiale, di dopoguerra lo si fa con ottica prevalentemente geo-politica, con prospettiva storico-critica, con sguardo oggettivo e manualistico: biennio rosso, scioperi, lotte operaie e rivendicazioni contadine, partiti politici, marcia su Roma, leggi razziali e antisemite, deportazioni, campi di concentramento, patriottismo e Resistenza… Nomi altisonanti e roboanti di memorabili statisti, leader politici, generali e combattenti, conferenze, operazioni militari, alleanze e movimenti. È storia. La storia con cui tutti, sin dai primi anni di scuola primaria, entriamo in contatto e che impariamo a conoscere. Una storia politica, sociale, economica, scandita da eventi, disseminata di date, ritmata dalle epocali azioni di individui inobliabili che schiere di insegnanti incalliti hanno cura di depositare nel bagaglio di conoscenze dei rispettivi allievi.

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Sicuramente uno dei mirabili pregi dei romanzi storici si rivela nella capacità di tale genere letterario di ricondurre il lettore alla dimensione umana della storia, ricordando che quest’ultima nasce, prima ancora che in qualità di disciplina, piuttosto in quanto vissuto collettivo e memoria culturale di ciascun individuo. Proprio a tale categoria risulta appropriato ascrivere il secondo libro classificato al concorso letterario Premio Strega 2018: Resto qui, opera dello scrittore ed insegnante milanese Marco Balzano ed edito da Einaudi. Un testo nel quale ventennio fascista, periodo bellico e post-bellico si ergono a comparse onnipresenti ed incalzanti di una storia spiccatamente umana e profondamente affettiva (empatica), che assume un nome, un volto, un’identità ben precise: quelli di una donna, Trina; quelli di un paese, Curon. Un libro che dà voce ad una visione prospettica e marginale di uno dei periodi maggiormente bui e travagliati del Novecento, quella di un umile villaggio della Val Venosta, appartenente a quell’Alto Adige che, insieme al Trentino, soltanto da un lasso di tempo estremamente esiguo (apertosi in seguito alla conclusione del primo conflitto mondiale) e, per molti aspetti, soltanto formalmente risultava parte integrante del territorio italiano, ancora così distante però per lingua, tradizioni, mentalità. Un romanzo all’interno del quale tempo storico, segnato dall’instaurarsi del governo fascista e dalle svariate sue conseguenze, e tempo mitico, scandito dai lavori e dalle occupazioni stagionali e naturali della montagna, si intrecciano fra loro, in una commistione pluridimensionale e polivalente, in cui la storia di una famiglia si lega indissolubilmente ed intimamente a quella di un paese, a sua volta inscritta in quella, più ampia ed articolata, di un Paese.

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Il testo presenta una struttura tripartita: “Gli anni”, “Fuggire” e “L’acqua”, le tre sezioni che scandiscono la trama del libro e le diverse tappe dell’esistenza di Trina, a partire dagli anni della sua infanzia/adolescenza, sino a quelli della più avanzata maturità, attraverso un susseguirsi incessante e copioso di vicende, dalle quali si evince il filo conduttore di un’esistenza segnata dalla precarietà, dal rischio, dalla sofferenza; votata al sacrificio, alla povertà, al senso del dovere; impreziosita dal sincero legame familiare, dall’affetto, dalla profonda passione per l’insegnamento; in un momento in cui la lingua tedesca, dichiarata illecita dal regime mussoliniano, costituiva materia di apprendimento esclusivamente nelle scuole clandestine, adibite in soffitte impolverate o tra l’erba di campi assolati.

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Mediante uno stile estremamente semplice e familiare, intessuto di immagini quotidiane e di nomignoli affettivi (Ma’ e Pa’), e attraverso lo sguardo di un narratore interno, coincidente con la stessa Trina, protagonista del libro, Balzano dà vita ad una riflessione sulle conseguenze della politica fascista in un luogo periferico del neo-nato Stato italiano, sito “fuori dal tempo” e “dallo spazio”, disegnato dagli ambienti della montagna, del lago, dei masi, vivificato dalle giornaliere occupazioni dei suoi abitanti, che appaiono intenti a zappare l’orto, accompagnare al pascolo gli animali, accatastare legna e mucchi di paglia; ancora capaci di provare appagamento e piacere nel sedere su una roccia o sdraiarsi nell’erba, osservando il cielo plumbeo e freddo, in un silenzio spezzato solamente dal gorgoglio del fiume che placido segue il suo percorso verso valle, o ancora nel poter gustare un piatto di polenta inzuppata nel latte, al tepore di una stufa scoppiettante; animati da un attaccamento commovente e viscerale ai propri luoghi, alle proprie radici, alle proprie consuetudini. “Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi aver paura di restare.” Restare. Parola chiave nell’interpretazione complessiva del testo. Restare, nonostante difficoltà e ristrettezza rappresentino costanti della quotidianità presente e limiti di uno sviluppo futuro. Restare, anche quando non si riesce a conseguire un’unità totale, fisica e mentale contemporaneamente, con il Paese di appartenenza; anche quando viene negata la possibilità di esprimere appieno la propria indole e la propria natura, impedendo all’individuo di rispondere autonomamente ai propri dettami interiori e imperativi morali, costringendolo ad essere diverso da quale è; anche quando scompare la protezione e la tutela che il potere e la sua rappresentanza dovrebbero garantire ai cittadini, quando si infrange tra le parti la capacità comunicativa, quando si dissolve la “sumpatheia” e la filantropia e comprensione e omogeneità cedono il passo a scontro e disordine. Restare, anche quando l’illusione della fine perenne di ogni conflitto e l’abbaglio di una vita sicura, intangibile da ogni male, munita contro avversità lontane e difficilmente concepibili grazie al baluardo dei monti, “pareti di solitudine” e rifugi inarrivabili, si tramuta in realtà amara e bruciante e le atrocità della guerra pervadono le proprie strade, le proprie case, i propri cari. Restare, anche quando, dinnanzi alla difficoltà imminente e al tentativo di sradicamento dalla propria casa, il congiungimento fedele alla propria terra originaria e paterna induce al coraggio ed esorta alla lealtà; anche quando la propria casa è Curon, il paese che non c’è più, il paese cui una diga ha arginato ogni possibilità futura e a cui l’acqua di un lago, l’odierno lago di Resia, ha sommerso l’identità.

Restare e resistere, ergendosi a partigiani di una Resistenza quotidiana, istintiva e totale; una Resistenza “alternativa”, affiliata a quel movimento di opposizione e difesa politica e militare, attiva e passiva, sorto nel corso della Seconda grande guerra. “Ci avessero domandato quel giorno qual era il nostro desiderio più grande, avremmo risposto che era continuare a vivere a Curon, in quel paese senza possibilità da dove i giovani erano scappati e tanti soldati non erano più tornati. Senza voler sapere niente del futuro e senza nessun’altra certezza. Solo restare.” E poter dire fieramente io “resto qui”.

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