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Recensione – Faust

 

di Erica Gazzoldi

 

Il mito goethiano del “patto col diavolo” si riveste di fotografia. Luce bianca, abbagliante, che fa talora sfumare i contorni delle figure. Volti caricati e grotteschi, che ricordano certa ritrattistica secentesca. Ovunque imperano il disfacimento, l’orrore fisico di malattia e morte. La claustrofobia, l’orgia di deformità e miserie umane fa balenare l’arte pittorica di Hieronymus Bosch. Il film di Aleksandr Sokurov è impietoso fin nelle immagini. Faust chiude una tetralogia sulla natura e la ricerca del potere. Il regista aveva cominciato con Adolf Hitler (Moloch), proseguendo con Lenin (Taurus) e Hiroito (Il sole). La quarta pellicola gli è valsa il Leone d’Oro per il Miglior Film (2011). Un ottimo riconoscimento per un’opera realizzata con un budget ristretto, avari tempi di lavorazione ed attori semiprofessionisti.
Il dottor Faust è il più letterario dei quattro personaggi raccontati e, anche per questo, il più archetipico. È il protagonista dell’omonimo dramma (1790-1832) di Johann Wolfgang Goethe. Lo scienziato tormentato appassiona il nostro tempo, in cui le scienze naturali propongono possibilità vertiginose ed interrogativi immani. Faust (Johannes Zeiler) è medico, ma anche astronomo, filosofo e teologo. Ha dedicato la propria vita all’acquisizione di un sapere enciclopedico, sacrificando ad esso la propria stessa sussistenza. Non ha affetti, se non il vecchio padre; pur salutato pomposamente come “professore”, conduce una vita di stenti. Si domanda, allora, se le proprie scelte esistenziali abbiano avuto un senso. L’interrogativo è profondamente religioso. Non a caso, il film si apre con la ricerca dell’anima, di cui Faust non trova la sede nelle viscere del cadavere dissezionato. “Qui ci sono solo rifiuti”. Ancora più disperata è la ricerca di Dio, che si trova ovunque –“perciò, in nessun luogo”. Il diavolo, invece, si incontra “là dove c’è denaro”. Ecco, quindi, che il posto del goethiano Mefistofele è preso da un usuraio, Mauritius (Anton Adasinsky), “l’oscuro”: il nome “di un martire o di un editore”. Al fianco del “diavolo”, Faust intraprende un viaggio incessante, senz’altro scopo che quello di andare “là”: sempre più avanti, sempre oltre qualcosa. In principio fu l’Azione, non il Verbo. Il motore di essa finisce per essere la lussuria, il desiderio di fagocitare un mondo ingenuo che lo scienziato ha perduto per sempre. In ciò consiste la passione per la lavandaia Gretchen (Isolda Dychauk). A lei, Mauritius ha legato Faust con un vincolo di morte: l’ha sottilmente guidato ad assassinare Valentin (Florian Brückner), il fratello di lei. Questi –non casualmente- è un soldato, un uomo d’azione: ciò che il dottore si è sempre rifiutato di essere e che è costretto dal “diavolo” a divenire, per rispondere al proprio vuoto di senso. Solo l’Azione resta a chi ha perduto la propria anima, a chi vive il paradosso d’un mondo dove “il bene non esiste… il male sì, invece”.

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