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Recensione – Melancholia

di Erica Gazzoldi

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:/era il rivo strozzato che gorgoglia,/era l’incartocciarsi della foglia/riarsa, era il cavallo stramazzato. (Eugenio Montale). A tutto ciò somiglia Justine (Kirsten Dunst), protagonista di Melancholia (http://www.lankelot.eu/cinema/von-trier-lars-melancholia.html ) . Lars Von Trier affida alla sua bellezza glaciale il compito d’incarnare il malessere esistenziale.

La pellicola è stata proposta presso il multisala Corallo-Ritz di Pavia il 1 marzo 2012, nel corso della rassegna Sguardi puri. La melancolia, che dà il titolo al film, è una malattia riconosciuta dalla psichiatria: “una tristezza morbosa e ostinata, indipendente dagli avvenimenti esterni, un pessimismo invincibile, un senso profondo di sfiducia e di avvilimento, che paralizza l’azione.” (1)
Questi sono i sintomi mostrati da Justine nel corso del film, materializzati nelle allucinate scene iniziali come lunghi fili che paralizzano i suoi movimenti. Il film, infatti, esordisce con una sequenza apocalittica: corpi pietrificati, scontri fra pianeti, uccelli che cadono morti –già presagio funebre per Alessandro Magno e la Beatrice dantesca. Un cavallo (l’amico del cuore di Justine) stramazza, quasi a richiamare le parole di Montale.
Nulla di tutto questo sembra riguardare ciò che accade dopo. La protagonista ricompare radiosa nel suo abito nuziale, in un quadro idilliaco: uno sposo romantico (Alexander Skarsgård), una carriera brillante, un palazzo da sogno. Per l’adorato nipotino, lei è la “zietta Spezza-acciaio”: ma, fino in fondo, non si comprenderà in cosa consista questa sua forza. La mascherata della felicità si sfoglia a poco a poco, lasciando a nudo il Nulla che possiede Justine. Non è cinismo il suo; ma il cinismo della madre preannuncia e prepara il seguito. Paralizzata dalla melancolia, la donna vive sotto l’ala della sorella Claire (Charlotte Gainsbourg).Nel frattempo, si diffonde la notizia del prossimo passaggio ravvicinato di un pianeta: Melancholia, appunto. La congiunzione astrale minaccia di divenire uno scontro letale per la Terra intera. Attraverso la metafora planetaria, la malattia di Justine diviene la malattia del mondo: “La vita sulla Terra è cattiva. Nessuno ne sentirà la mancanza.” La donna riprende forza man mano che le previsioni peggiorano: aspira, in fondo, all’annullamento universale, unica salvezza dal male di vivere che rende cenere perfino il nutrimento.

Lars Von Trier tratta questo tema tragico con fine sensibilità pittorica. Il rosso di Antares (eccitazione, passione) vigila sulle nozze di Justine, nella prima parte del film. La seconda è dominata dal blu di Melancholia. La protagonista, poi, esterna la propria angoscia sfogliando libri d’arte: compaiono uno schiavo nero torturato (incisione di William Blake), volo e caduta di S. Antonio (Hieronymus Bosch), Ofelia morente (John Everett Millais). In una seconda Ofelia si trasforma anche Justine, quando la sua figura nuda si distende sulla riva d’un fiume.
La sua malattia le conferisce anche un intuito abnorme e crudele, fonte di disillusione: “Siamo soli. C’è vita solo sulla Terra… e per poco ancora.” Davanti a lei, cadono sia la “normalità” domestica di Claire, sia le sicurezze del cognato John (Kiefer Sutherland): un ricco scientista che presume di calcolare i moti degli astri, mentre sbaglia perfino nel contare le buche del proprio campo da golf. La saggezza –sembra dire Von Trier- non viene né dalla scienza, né dal senso comune, ma dal male di vivere. Si rivela così la forza titanica di Justine “Spezza-acciaio”: la consapevolezza del fatto che non esiste rifugio fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza.

(1) E(rnesto) L(ugaro) – E(ugenio) Ta(nzi), “Melancolia”, in: Enciclopedia Italiana, XXII

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