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RECENSIONE – LO HOBBIT

Mancano pochi mesi all’uscita del capitolo finale dell’adattamento cinematografico de “Lo Hobbit”. Dell’opera prima di Tolkien però – e spiace ammetterlo – si è ripreso il titolo ma si è persa l’atmosfera e l’anima. Sì perchè, a prescindere dall’amore che si può provare per la prima trilogia del regista neozelandese, quel “Signore Degli Anelli” che tutti per lo meno conosciamo di fama, non si può non rimanere delusi da questo suo ultimo lavoro.
Ma andiamo con ordine e cominciamo dalle criticabili scelte stilistiche e tecniche.
Abbiamo dei nani che del rozzo e sporco tipico del loro stereotipo hanno ben poco e che, anzi, appaiono fin troppo curati e effemminati. Non riescono mai a convincere appieno e più che seri risultano innaturali, costruiti, finti.
Abbiamo poi una computer grafica che, oltre ad essere pessima, è usata per creare scene davvero inutili, soprattutto inutilmente lunghe. Faccio riferimento in primis – e attenzione agli spoiler – ai goblin che ritroviamo in “Un Viaggio Inaspettato”: scadenti e troppo computerizzati riescono a essere peggiori dei nani. Altro esempio è la lunghissima sequenza posta alla fine del secondo film. Qui vediamo l’accensione delle fornaci di Erebor, la fusione dell’oro dei nani, il riversamento di questo tesoro liquido su Smaug: il tutto a quale scopo? Nessuno, il drago se ne libera in poche semplici mosse. In pratica lo spettatore ha assistito a un crescendo d’azione, di più di venti minuti, che non sfocia in nulla e che a livello di trama non ha alcuna esigenza ma, soprattutto, conseguenza. No, anzi, un risultato lo produce: riesce a far sentire lo spettatore stupido, imbrogliato, e disgustato dalla pessima CGI.
Non è ancora finita. Qual’è il vero motivo della delusione nello spettatore?
Il film non riesce a convincere per un semplice motivo: non è “Lo Hobbit” che scrisse Tolkien.

A questa critica si potrebbe replicare che, come lo stesso “Signore degli Anelli” ha insegnato, nelle trasposizioni da libro a film le vicende narrate nel primo devono necessariamente scendere a compromessi con i limiti della pellicola. Si deve fare una scelta tra cosa filmare e cosa invece tagliare, l’aspetto fondamentale è cogliere lo spirito del racconto. Il problema però non è risolto. Anzi, a pensarci bene, quanto appena detto non fa altro che dimostrare come “Lo Hobbit” è ciò che di più lontano dall’originaria fiaba tolkieniana possa esserci.
Jackson, con il “Signore Degli Anelli”, agì in un determinato modo: trovò una tale molte di testo che rappresentarlo tutto si rivelò impossibile, per questo fece un’accurata ricerca di quella che era l’essenza della storia e, tenendo questa come faro, si mosse per decidere cosa inscenare e cosa no.
Con “Lo Hobbit” tutto questo non è accaduto. Qui si è trovato a lavorare su di un testo che è lungo meno della metà del “Signore degli Anelli”, un testo breve, il cui materiale è quindi molto scarno. Anche lo stile è, poi, diverso: meno descrittivo, meno cupo, più fiabesco. Si è lavorato quindi in maniera inversa, cercando di impostare le scene per renderle più simili alla precedente trilogia e, addirittura, di rinfoltirle aggiungendo materiale preso dalle appendici del “Signore degli Anelli”.
Risultato? Abbiamo due film lunghi, in cui non accade nulla, in cui è palese l’intenzione di guadagnare tempo. Per poi giungere a cosa? Alla fine del film: la noia.

Un pensiero su “RECENSIONE – LO HOBBIT

  • Serena

    Tagliente oserei dire, hai distrutto questo film con eleganza.
    Sono d’accordo su ogni parola che hai scritto, del resto una pellicola non può riprodurre ciò che la nostra mente crea leggendo.
    Bravo Igna!

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