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Recensione / L’intervallo

di Erica Gazzoldi

Il mondo della camorra in un edificio fatiscente. Sembrerebbe una storia di fantasmi, di quelle a cui Veronica (Francesca Riso) crede ciecamente. Sono storie di fantasmi, infatti, le vicende delle vittime: come Gelsomina Verde, resa famosa da Gomorra di R. Saviano.
L’intervallo è la prima fiction girata da Leonardo Di Costanzo, finora solo documentarista. È stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (2012), nella sezione “Orizzonti”. Pellicole d’autunno l’ha portato a Pavia (6 novembre 2012).
Salvatore (Alessio Gallo) ha terminato le scuole medie e aiuta il padre, venditore ambulante di granite. Alleva cardellini e studia il comportamento dei piccoli uccelli. Con uno strano “pettirosso” dovrà avere a che fare: Veronica, quindicenne ingabbiata in un collegio abbandonato. Attende là il verdetto di Bernardino (Carmine Paternoster), il boss del quartiere. Causa: uno sgarro innominato. Salvatore è stato scelto come suo carceriere, per la giornata. I due ragazzini si trovano prima in conflitto, poi in intesa. Entrambi sono ostaggi della paura, che si materializza in echi, ombre, racconti obliqui. Il destino ha il volto di Monica, morta a quindici anni per ostracismo sociale. O di Guglielmina Verde, che <<forse, non è nemmeno esistita>>. Il rischio dell’oblio punge quanto il pensiero della morte. Veronica ha bisogno di sapere che la sua storia sarà raccontata, <<se dovesse succedermi qualcosa>>. In un certo senso, è ciò che Di Costanzo fa. Immortala anche il rione, la speculazione edilizia, l’abbandono scolastico. La camera a mano segue i movimenti e i corpi –imperfetti e sanguigni, “presi dalla strada”. Si alterna a panoramiche della città, che ricollegano il microcosmo della “prigione” al proprio macrocosmo. I dialoghi si snodano in napoletano schietto (sottotitolati). Il risultato della loro studiata elaborazione è una perfetta naturalezza. Naturali e studiate insieme sono anche le presenze animali nel “carcere”. Il loro quid di fiabesco ricorda scene de La morte corre sul fiume o i manga di Hayao Miyazaki. Sono ovvie in un edificio abbandonato, eppure vien spontaneo vederle come genii benefici o malauguranti. Esse conoscono quella via di fuga ignota agli umani. Questi possono solo rispecchiarsi nel rombo di un aereo, che sottolinea le loro tacite impennate di ribellione. La realtà piomba nella forma di Mimmo (Salvatore Ruocco), l’uomo del boss. Rappresenta un potere arrogante, ma gregario: <<Non ti fai nemmeno la barba, se Bernardino non te lo dice>>. Poi, “il capo” in persona. Il padre-padrone del quartiere, che rivela un rapporto quasi “incestuoso” con la vittima. Da buon rappresentante della Forza, sa che essa non è unilaterale e che anche l’aguzzino deve temere.
La guerra di camorra in corso è simile a quell’immaginario terremoto che potrebbe seppellire gli indesiderati, ma anche gli amici. In tutto questo, Veronica non ha paura. Come i pettirossi, che cantano nel buio della notte, confondendosi con gli usignoli. Cosicché, <<anche un esperto scambia un canto di sfida per un canto d’amore>>. In questo consiste l’intervallo, la sospensione delle leggi del Sistema. Solo apparente, in un mondo che non ammette “terre di nessuno”.

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