CinemaRecensioni

Recensione – Koyaanisqatsi

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

 

Una vita che si deve adattare al cambiamento, una vita senza equilibrio, frenetica. È questo il significato della parola Hopi (indiani d’america) che dà il titolo al lungometraggio.

Firmato da Godfrey Reggio e nato nel 1976, primo e più celebre capitolo della trilogia “Qatsi” (seguito da Powaqqatsi, 1988, e Naqoyqatsi, 2002), Koyaanisqatsi è un lungometraggio che trascende la stessa natura di documentario. Prodotto per l’istituto di “Regional Education” della regione di Santa Fè (il cui obiettivo dichiarato era quello di “usare i media per vendere idee e non merci”), richiederà 3 anni di riprese e altrettanti di montaggio e postproduzione, per poi arrivare nelle sale nella stagione 1982/83.
È dall’Arizona degli Hopi che il viaggio proposto dal film comincia, in una natura senza macchia, statica, che prende vita nel delicato movimento della polvere alzata dal vento del deserto e dal vapore che sale dai geyser.
Presto questa purezza è aggredita dall’incombere delle macchine, strumenti che contamineranno la steppa con ciminiere e rinchiuderanno il mare tra il cemento, corrompendo l’orizzonte fino a far scomparire la natura sotto il metallo e il cemento di un paesaggio urbano.
L’affresco immobile dello scenario industriale rimane sfondo di tutto il percorso che si snoda nella restante ora di proiezione, tra la frenesia di New York e la vastità di Los Angeles.
Grattacieli che coprono l’alzarsi della luna e il sole che sorge coperto dai palazzi la cui autoritaria altezza è rasa al suolo dagli esplosivi; masse di gente che si muovono nelle corsie dei centri commerciali che sembrano le strade di cemento su cui corrono fiumi di macchine; il freddo metallo della catena di montaggio che contrasta con le fiammate e le scintille che danno vita a prodotti dei quali non si capisce la natura; televisioni che accerchiano una donna e la bombardano di immagini di farmaci e politici; volti che trasmettono tutta l’ansia della nuova civilizzazione. E bandiere statunitensi che sembrano vantare la paternità di tutta quella distruzione che l’uomo ha portato a una natura prima inviolata.
Non ci sono dialoghi in Koyaanisqatsi. E non ci sono nemmeno attori. Solo l’ossessività del tema firmato di Philip Glass, maggiore esponente della corrente minimalista della musica classica contemporanea, riempie splendidamente i vuoti di parole di questi ritratti di vita della fine del millennio.
Il mutìo che nasce dalla presa di coscienza dello spettatore si scontra invece con il frastuono diarmonico delle immagini accelerate che, poste in sequenza, creano una storia di parallelismi tra l’uomo e l’ambiente in cui vive.
Dal punto di vista cinematografico, l’innovazione del film sta non nella ideazione, ma nella ripresa e riattualizzazione di quel linguaggio teso al “mostrare”, al “far vedere” che autori come Walter Ruttmann (Berlin – die Symphonie der Grossstadt) o Dziga Vertov (L’uomo con la macchina da presa) già usavano per trascendere le avanguardie alle quali sono spesso maldestramente ricondotti. Sperimentatore della pellicola, Reggio crea un racconto di sole immagini, un viaggio tra dipinti della realtà. Un saggio di ripresa, permesso dal linguaggio della potenza espressiva della sola fotografia in movimento: un ritorno alla natura stessa del cinema, alla fotografia e al montaggio.
Erano gli anni ’70 quando nascevano i primi movimenti per la difesa dell’ambiente dalla violenza invasiva dell’uomo postindustriale. Eppure oggi più che mai il viaggio in cui il film ci guida è capace di fare una grande presa su chi lo affronta, quasi come una esperienza mistica, spirituale.
Chi ne rimase stupito, disse che dopo averlo visto “non avrebbe più più potuto vedere il mondo nello stesso modo”. Perché davanti a queste immagini non si può dire “non è così”. Siamo proprio noi quella massa senza forma, vista dall’alto attraverso una lente, che non permette di distinguere i singoli al suo interno, che mostra quanto siamo uguali e quanto l’ecosistema in cui l’uomo vive l’abbia plasmato a sua immagine e somiglianza. La religione positivista diventa così creatrice dell’ambiente che ci circonda e origine stessa della frenesia compulsiva della folla, così diversa dalla delicatezza della natura ma così simile al tumulto delle macchine.
I fotogrammi non danno giudizi. Rivelano e danno prova di come l’unica condizione di sussistenza dell’uomo sia l’equilibrio che esso ha dentro di sé: accelerate, le immagini rilevano l’insostenibilità del caos che ci circonda; rallentate, palesano quanto la gente sia eternamente sola anche in mezzo allo sciame in cui fluisce. Ma troppo superficiale sarebbe intendere queste immagini come una demonizzazione della civiltà del novecento. Esecrare la vita rappresentata nel film significherebbe odiare noi stessi e tutto ciò che abbiamo imparato ad amare. Sarebbe odiare qualcosa che fa parte di noi tutti, un mondo che ci siamo creati per soddisfare i nostri bisogni, un processo ineluttabile.
L’occhio della cinepresa che riprende dall’alto invita allora alla riflessione sulla nostra organizzazione di vita.
Eppure il film racconta solo una delle tante verità di cui siamo protagonisti. Poche sono le inquadrature di persone singole, ma tutte mostrano però l’individuo come parte imprescindibile di questo paesaggio. Poco è l’amore che trapela da queste immagini che rappresentano noi e la nostra vita. Ciò lascia la speranza che l’uomo possa, in questa prigione di metallo e cemento, trovare rimedio all’indifferenza che lo attornia. E questa salvezza la può riesumare da sè stesso, oppure dalla natura. Quella natura eterna che l’uomo cerca di piegare alla sua finitezza.

Un pensiero su “Recensione – Koyaanisqatsi

  • Giuseppe Perna, pianista, come molti colleghi europei, è passato dall’avantgarde degli anni ’60 e ’70 uscita dalla dodecafonia e serialismo post-Webern, attraverso la combinazione di neoclassicismo e armonia modale e gradualmente si trasformato in un improvvisatore in uno stile che combina il classicismo contemporaneo e il jazz modale d‘avanguardia. La poetica musicale e melodica di Giuseppe Perna come lui stesso la definisce è “un tentativo di immersione in me stesso per essere in grado di toccare la bellezza” .
    Nell’arte di G.P. si coglie anche il suo scetticismo sulla società contemporanea, è la musica del fermarsi in tempo, materializzazione nel suono di un vuoto sorprendente, dove l’azione ritmica e melodica spesso è rallentata volutamente per indurre alla riflessione.
    A tratti la musica del maestro assume fisionomia dionisiaca con ritmo forte energetico ed incessante.
    L’improvvisazione modale libera dal prevedibile e spinge verso l’ignoto di una performance dove l’orchestrazione tipica proposta dalla modernità ufficiale si indebolisce per l’oscuramento dell’ elemento musicale di gravitazione tonale.

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *