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Rampage – Furia animale è un film di cui c’era bisogno

Al Cinema, la Settima Arte, forse si chiede sempre troppo. A volte, i film come Rampage – Furia animale sono necessari, perché non hanno la pretesa di assurgere a capolavoro d’arte e ad essi non si può chiedere che tempi d’azione serrati e ben dosati, dialoghi avvincenti e una sceneggiatura coerente. E Rampage in realtà ha tutti questi elementi.

rampage 1Il consueto esperimento scientifico con conseguenze incontrollate in una stazione spaziale orbitante ne causa la distruzione; la pioggia di detriti si sparge sul suolo americano e va a colpire e dunque coinvolgere tra gli altri lo scherzoso gorilla albino George ed il suo amico umano Davis Okoye, primatologo dall’oscuro passato classified nelle forze speciali. I vapori inalati dagli animali li portano a subire diverse mutazioni, tra cui le più evidenti sono una crescita del tutto incunsueta, forza ed aggressività incontrollate. La compagnia che ha dato origine al progetto rampage vuole prendere il controllo delle bestie, attirandole in maniera molto previdente al centro di Chicago, dove Dwayne The Rock Johnson si trova per la prima volta a fronteggiare nemici più grossi di lui e dove nel disastro causato dal passaggio dei tre giganti mutati la città verrà ampiamente distrutta e perderanno la vita centinaia di persone.

In proposito si riscontra la novità più evidente della pellicola: la gente muore. Nei film d’azione per famiglie in genere nessuno ci rimette le penne per davvero, se non il cattivo di turno. Da questo punto di vista il regista Braa Peyton sembra aver imparato la lezione del capostipite dei Monsrampageter Movie, King Kong, senza però giungere alle stesse soluzioni estetiche cruente (qui la storia di Kong e qui l’ultimo Kong Skull Island). La violenza e il sangue ci sono e sono sorprendentemente crudi, ma non sono mai protagonisti. Nella sequenza iniziale, ambientata sulla stazione spaziale, pezzi di cadaveri fluttano nell’aria, ma la camera non vi indugia mai, dimostrando una notevole peculiarità del direttore della fotografia, Jaron Preasant, che non cade nel gusto splatter fine a sè stesso che, probabuilmente, oramai ha fatto la sua epoca. Gli omaggi allo scimmione più famoso di sempre, che sarebbero stati più che prevedibili, si fermano qui. La citazione scontata è stata accuratamente evitata, con una scelta apprezzabile soprattutto durante lo scontro sulla cima del grattacielo, dove la ripresa letterale del celeberrimo shot dell’Empire State Building di Kong – non solo prevedibile ma anzi attesa – non arriva mai.

La sceneggiatura ad otto mani firmata da Ryan Engle, Carlton Cuse, Ryan Condal, Adam Sztykiel ha il pregio di riuscire a sdrammatizzare e sbeffeggiare tutti i luoghi comuni dei film action. Quando alla domanda su chi sia il protagonista uno dei militari risponde “di sicuro uno a cui piace la palestra”, quando lo stesso Okoye definisce il suo un “braccio enorme” e soprattutto quando i protagonisti affermano che è “impossibile siano sopravvisuti” gli stereotipi sono resi più interessanti e fanno sorridere anzichè sbuffare. Altra qualità innegabile è l’assenza di una protagonista femminile eccessivamente formosa e affascinante e della mielensa, risputa, nonchè insensata storia d’amore del beniamino con la stessa.

Il giudizio è quindi positivo, si tratta di due ore divertenti e ben orchestrate, con qualche idea inedita ben sparsa. Un’americanata senza infamia.

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