Birdmen

Rabbits: l’antropomorfismo oscuro di David Lynch

Al sentire il nome di David Lynch ai più verranno certamente alla mente alcuni grandi film, come Eraserhead o Mullholand Drive, quest’ultimo considerato il miglior film del 21esimo secolo dalla BBC. Quando invece parliamo di cortometraggi, ci addentriamo in una parte della produzione lynchiana che non tutti conoscono e che comprende, tra gli altri, Six Figures Getting Sick, Dumbland e, appunto, Rabbits.

Rabbits è una serie composta da sette cortometraggi, per una lunghezza di circa quaranta minuti, rilasciata inizialmente sul sito internet ufficiale del regista, ormai nel lontano 2002. Fin dalle prime scene lo spettatore si trova proiettato in un universo straniante, complice l’inquadratura fissa della macchina da presa, priva di tagli di montaggio, che riprende costantemente una stanza, scarsamente arredata. La musica di sottofondo è costituita da un inquietante motivo, composto da Angelo Badalamenti. Ma sono in realtà i personaggi a rendere disturbante la scena. Infatti, come si evince dal titolo, costoro sono tre grandi conigli antropomorfi, chiamati rispettivamente Suzie (Naomi Watts), Jack (Scott Coffey) e Jane (Laura Helena Harring).

I tre conigli, per tutta la serie, non fanno altro se non parlare. Le battute che si scambiano sono brevi, sibilline e apparentemente slegate fra loro. Alludono spesso a qualcosa che Jack sa, ma che non può, o non vuole, rivelare alle altre.

Si ha costantemente il sentore che qualcosa di terribile stia per succedere o sia appena successo, ma i gesti dei conigli sono lenti, schematici, tanto da costringere lo spettatore ad armarsi di pazienza, in attesa di un elemento chiarificatore che Lynch, come spesso accade, non offre.

Da notare che Jack è apparentemente l’unico che può entrare e uscire dalla stanza. Quando lo fa, parte un applauso pre-registrato, come quelli delle sit-com, che lascia incredulo chi guarda. Risate e altri effetti come quello appena descritto sono presenti anche durante i lunghi dialoghi dei conigli, in un contesto completamente straniante.

Scavare nei meandri del genio lynchano per trovare una chiave di lettura razionale e soddisfacente a quanto appena descritto sembra un’impresa impossibile, anche perché lo stesso regista è sempre stato restio a fornire una spiegazione ai suoi lavori. Pare però altamente improbabile, a modesto parere di chi scrive, che Lynch abbia confezionato un prodotto completamente alogico.

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Immediato può essere il collegamento con le sit-com, genere a cui Rabbits rimanda a causa degli effetti sonori e della messa in quadro. La serie potrebbe però volersi collocare su un piano diametralmente opposto, di rottura, più che parallelo, rispetto a tale genere di spettacolo audiovisivo. Solo in via ipotetica potremmo provare a dire che, attraverso questa provocazione estremizzata, Lynch voglia criticare o parodiare un certo tipo di  televisione comica. Potrebbe anche essere probabile, o perlomeno pensabile, che l’accusa sia rivolta al pubblico, che non riesce a capire che cosa sta vedendo. Una sferzata, il cui obiettivo può darsi sia quindi lo spettatore disattento, vittima-complice di un sistema di intrattenimento che gioca sulla sbadataggine di chi guarda e non presta attenzione. Alcune scene, in cui la stanza si tinge di rosso e un volto demoniaco recita una battuta incomprensibile, sembrano avvalorare questa tesi. Infatti, il pubblico ammaestrato riderebbe e applaudirebbe quando non capisce, mentre tenderebbe a tacere inorridito quando il Male si palesa nella sua forma più pura.

Il tempo inoltre, pare non scorrere mai, o, meglio, scorre, ma con regole diverse rispetto a quelle del mondo reale. La pioggia ed il vento sono perenni  e alcune battute dei personaggi sembrano rispondere a domande fatte in precedenza o anticipano la domanda stessa. Un mondo, insomma, dove i piani temporali si intrecciano e si sovrappongono e che non può non richiamare alla mente la Loggia Nera di Twin Peaks, simile anche nell’arredamento. Come la Loggia Nera, vale anche la teoria secondo la quale la stanza sarebbe una sorta di dimensione parallela, di limbo, in cui i personaggi, in alcuni attimi di lucidità, alludono forse alla loro vita passata – «Jane eri bionda», pronunciata da Sousie – e si accorgono della stranezza del luogo («Qualcosa non va»).

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Il coniglio Jack in una scena di INLAND EMPIRE

Rabbits assume un’importanza particolare se si tiene conto che parti di questa serie sono inserite nell’ultima fatica cinematografica di Lynch, ovvero l’inestricabile groviglio di materia onirica e filmografia pura che è INLAND EMPIRE (2006). In particolare, nel film, alcune scene di Rabbits sono trasmesse in televisione e vengono osservate impassibilmente da un personaggio enigmatico, la donna mora, detta Lost girl, attorno alla quale ruota tutta la vicenda. Prendendo visione di questo film, dopo aver a fatica ricostruito tutti i vari piani metacinematografici che si compenetrano, possiamo supporre che la stanza dei conigli sia il portale di collegamento fra realtà e illusione, fra ciò che è e ciò che avremmo voluto fosse. Questa teoria, che meriterebbe uno spazio molto maggiore rispetto a quello a disposizione, pare confermata se prendiamo per vero che la Lost girl, guardando la serie alla televisione, crea un alter-ego fantastico, Nikki. Come in Alice attraverso lo specchio, assistiamo ad un lungo processo di sdoppiamento che si conclude con il ritorno in se stessi. Come il coniglio di Alice, i conigli antropomorfi sarebbero il collegamento che porta dall’io-fittizio, Nikki, all’io-reale, la Lost girl. Dopo che Nikki, che nel sogno recita in un film chiamato 47, capisce di essere un’entità irreale, riesce ad attraversare i diversi piani della realtà, fino ad entrare nella stanza 47, che è proprio quella dei conigli, e arriva alla Lost girl, sua controparte reale, con la quale si riunirà per mezzo di un bacio saffico.

Il prematuramente scomparso David Foster Wallace notava, nel saggio del 1996 David Lynch keeps his Head, come, tra le molte cose che rendono caratteristici e inimitabili i film di Lynch, vi fosse il modo di provocare lo spettatore. L’inquietudine che proviamo di fronte ai lavori lynchani deriverebbe anche dal non riuscire a cogliere la fissità nella loro essenza, che è sempre sfumata, oscillante tra Bene e Male. Lo stesso Lynch, quindi, sfrutterebbe il nostro torpore per sovvertire i nostri preconcetti e schiaffeggiarci con i suoi personaggi, che si rivelano cavalli di Troia capaci di farci fermare un momento a riflettere su cosa stia succedendo.

Tornando alla serie, pensando a quanto D. F. Wallace esponeva, possiamo quindi notare, in conclusione, che la scelta di un’inquadratura fissa, così come la recitazione, fa molto pensare ad una rappresentazione teatrale, quindi ad un genere che prevede un forte contatto con il pubblico. I conigli, infatti, sembrano consapevoli che qualcuno li osservi, tant’è che Jane afferma: «Spererei solo che andassero da qualche altra parte».

L’unico punto che sembra certo è che, come nel teatro e come in gran parte delle suo opere, Lynch qui ricerca proprio la partecipazione del pubblico a quello che sta guardando. In ultima ipotesi, è probabile che il geniale autore di Twin Peaks voglia spingere la sua audience ad un rapporto attivo con l’opera visiva, ad una fruizione, quindi, che, nel bene e nel male, smuova lo spettatore a crearsi un’idea, a farsi un’opinione. E per fare questo, giocoforza, Lynch non usa mezzi termini, impostando la sua produzione su un filo che corre da un estremo all’altro, passando da televisione e cinema a metatelevisione e metacinema (in certi casi, come nel già citato INLAND EMPIRE, anche a metametacinema). Così facendo però, in tutte le sue opere, Rabbits compresa, dà anche la possibilità, a chiunque voglia seguirlo, di scoprire significati nascosti, impensabili e impensati, tutti probabilmente falsi, ma anche tutti incredibilmente veri.

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