Questione di mentalità. Se non ci scappa il morto…

La minoranza silenziosa delle biciclette si fa sentire, eccome. Talmente tanto e talmente bene da essere accolta in una delegazione di tre persone, a Roma, da nientepopodimenoché un consigliere di Giorgio Napolitano, aka il Presidente della Repubblica. È un risultato forte, specie per i caratteri spontanei della manifestazione di ieri sera, che come in altre trentadue piazze d’Italia ha richiamato italiani e istituzioni alle stragi di utenti deboli della strada ogni giorno distrattamente perpetrate sull’asfalto, e diligentemente riportate sui quotidiani come “incidenti” e nulla più. Ma c’è chi è consapevole della vera natura di questi “incidenti” così come della responsabilità di chi può ma non vuole modificare il Codice della Strada, specie nei centri urbani. E quell’incontro tra cittadino debole e istituzione di ieri sera è un piccolo passo – non si è scomodato mr. President – comunque importante e prezioso.
Eppure è strano che l’uomo più importante del Quirinale non abbia a cuore un argomento come la mobilità urbana e i problemi connessi. I suoi poteri istituzionali certo non gli permettono di intervenire direttamente per fermare le stragi di ciclisti e pedoni. Visto che non taglia solo nastri, avrebbe dovuto fare di tutto e di più per rendere le strade più sicure, ma forse l’incidente che ha visto sua moglie Clio investita sulle strisce a Roma nel 2007. Se l’è cavata con traumi a femore e omero, che non sono una cosa piacevole, ma che non sono abbastanza per cambiare qualcosa. Non è cinismo né cattiveria, ma consapevolezza della natura delle nostre istituzioni: se non ci scappa il morto, non cambia nulla. Di più: se è un morto comune, è come se non fosse morto nessuno. E la prova sono i 200 ciclisti uccisi dall’inizio dell’anno. È forse cambiato qualcosa?
Ma tale natura non è propria solo delle istituzioni. La maggioranza dei nostri connazionali è pervasa da un infame egoismo che li vede responsabilizzarsi solo se il problema in questione li tocca – anzi, li urta. Altrimenti, non è un problema loro, che si levino dalle palle i ciclisti, il Giro d’Italia è finito. E non è detto che inizino minimamente a capire la portata del problema nemmeno se un loro parente fosse investito a piedi o in bici. Finché non saranno loro a finire in un letto d’ospedale, nell’ipotesi meno brutta, non capiranno mai. Eppure avvertono il problema, e come lo risolvono? Comprando auto sempre più sicure ma soprattutto grosse. Ancora egoismo: c’è un pericolo, difendo me stesso. Mors tua, vita mea.
C’è bisogno di un cambio di mentalità – sicuramente, ma non “innanzitutto”. Innanzitutto bisogna portare il limite a 30 km/h nei centri urbani, velocità che dimezzerebbe gli omicidi nelle città. Ma ancora una volta ci scontriamo con il furbo italiano, lo stesso che parla comunque al cellulare mentre guida e se ha una conoscenza utile o una scappatoia non manca di farla sapere all’agente di turno. E allora? L’unica soluzione per far valere il nuovo limite sarebbe installare tanti autovelox nelle città, con un costo rapidissimamente ammortizzato dalle numerosissime infrazioni commesse dai piloti che sfrecciano sui nostri circuti cittadini – pardon, strade urbane. Personalmente credo sia ormai l’unica soluzione civile ed educata: non posso augurarmi che ogni famiglia italiana abbia un grave lutto perché il Paese si svegli in tempi utili cambiando io proprio modo di pensare.
Riflettiamo, tutti. Perché se anche siamo automobilisti al 100% e ci crediamo al sicuro tra le nostre cinque porte, prima o poi dobbiamo scendere e andare a piedi. E allora il problema – sotto forma di paraurti anteriore di un’altra auto – potrebbe riguardarci da molto, molto vicino. E il limite di 30 km/h ci farà comodo.

Stefano Sfondrini (@SteSfo su Twitter)

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