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Quelli di Grock: un caffè al circo dei vizi

All’apertura del sipario, è evidente che la Bottega che intrattiene con le sue torbide vicende non ha fattezze lagunari: una manciata di elementi ben collocati, dalle sacche di chicchi tostati al tavolino in ferro battuto, rendono il caffè un’appendice integrata di una sorta di Moulin Rouge déclassé. Poi, la conferma, perchè da Quelli di Grock non possiamo aspettarci un Goldoni vestito di tradizione: la scena diventa un casinò di periferia, giacche zeppe di paillettes sfilano una dopo l’altra, il canto corale irrompe e le prime battute vengono pronunciate al microfono. L’intuizione superficiale è che assisteremo alla rottura della quarta parete, alla ricerca del diretto contatto con la sala, ma la strategia è più sottile: gli strumenti del genere cabarettistico vengono impiegati per trascinare lo spettatore nel vascello dei vizi e della perdizione, per corteggiarlo senza ricorrere al richiamo evidente ma ricreando con grande efficacia la casa dell’oblio.

La bottega del caffé

Ma se la notte è ossessionata dalla ricerca della fortuna, “il mattino ha l’oro in bocca” per i lavoratori come Ridolfo, bottegaio che sbircia senza malizia nelle vite degli altri, confessore involontario che ha il privilegio di servire il caffè in silenzio; al suo fianco, Trappola, apparentemente un trapezista dell’ex-URSS, a costituire l’altro polo della galassia tematica. C’è una verità incontrovertibile che i due oppongono reciprocamente: il denaro può alleggerire questa vita, e c’è da scegliere tra lo sporco azzardo e la pulizia delle tazzine da caffè. Le parti si confrontano inizialmente in sordina, mentre con lentezza rituale si costruisce il ritmo: i dialoghi che si tendono da un lato all’altro della scena, ricreando il passaggio dalla bisca al cafè senza soluzione di continuità, vengono integrati a cadenza regolare dall’ingresso di un terzo personaggio che sgomita per assicurarsi la centralità, collocandosi simmetricamente tra i primi due, e per raccontarsi ad una sorta di orecchio invisibile diluito tra i fumi delle moche e quelli attorno alle roulette.

L’arabica, attimo di sollievo dalle ansietà quotidiane, ci fa incontrare Pandolfo, diavolo tentatore e usuraio impenitente; Don Marzio, la “tromba della città” che si diletta a tessere trame sempre nuove sulle disgrazie altrui; Lisandra, ballerina tanto corteggiata e tanto sola; Flaminio, celato nei panni del conte dalla r moscia, e poi mogli e mariti che giocano a togliersi e concedersi fiducia. Tutti questi tipi umani sono imbevuti di clichè, personaggi costruiti attraverso la caratterizzazione dialettale e mediante gesti esacerbati, e tuttavia i luoghi comuni vengono cavalcati con leggerezza e gli attori, con grazia funambolesca, rasentano il surreale restando perfettamente riconoscibili e credibili. La costruzione di “macchiette”, seppure moderne e comunicanti, aderisce alla volontà primigenia dell’autore veneziano di dipingere, con accuratezza quasi clinica, le meschinità della piccola e media borghesia del tempo, adoperando uno sguardo scevro di giudizi di valore e una messa in scena portata al parossismo.

La bottega del caffé

In questa masquerade, tra dissonanze, sbalzi emotivi e cambi di rotta esilaranti, soffia il dramma dell’ossessione e della malattia allusa senza ipocrisie. Nella Bottega gli uomini boccheggiano in un’ampolla, guardando alle serie di luci fuori, ognuno con un jingle che ritorna – i Khora Quartet deliziano con l’eleganza vibrante degli archi – un oggetto scenico riutilizzato in modo sempre nuovo, un’onomatopea ad arricchire gli scambi di battute ora secchi ora amplificati dalle sillabe allungate. Ma tra una manipolazione e un pettegolezzo, tra un vezzo del portamento e una valigia che fa pendant, questa schiera di ambiziosi, pigri e invidiosi, e su tutti il cascamorto e schiavo del gioco Eugenio, diventano i disgraziati di una cattedrale carveriana, sempre sull’orlo del precipizio.

E’ una verità immediata che bussa con istitenza, ed è per questo che il finale serioso della confessione di un redento Ridolfo non convince: il tono accorato e l’intento retorico stridono con l’impianto leggero e divertito di uno spettacolo dalle intenzioni irriverenti. E’ superflua una dichiarazione di sconfitta perchè è tragica l’incoscienza e la cecità con cui i personaggi si lasciano sopraffare in un eterno ritorno. Ciononostante, in questa efficace rilettura brechtiana della commedia di Goldoni, Valeria Cavalli e Claudio Intropido scelgono di non dare peso alla redenzione, e ricollocano gli avventori abituali della Bottega nel luogo a cui vogliono appartenere: lo spazio immutato dei drappi rossi e delle luci al neon, che accoglie gli inetti, e li guarda dal buco della serratura.

La bottega del caffé

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