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Quando un punto di vista non basta

di Valentina Falleri e Francesca Perucco

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Non ci sembra vero di aver trovato un argomento che vi scuote. Ci sarebbe piaciuto che non fosse questa l’occasione, ma visto che ci siamo capitati, lasciateci chiarire poche cose.

Inchiostro raccoglie la voce di tutti e cresce quando riesce ad essere strumento di confronto e dibattito, non è un contenitore ma uno spazio libero da occupare con le parole di chi vuole scriverci.
La redazione che cura questo giornale è fatta di teste e penne e pensieri diversi che si incontrano e spesso si scontrano ma che comunque lavorano insieme affinché tutte le opinioni trovino l’occasione di essere ugualmente pubblicate. In quest’ottica abbiamo scelto di far uscire sul blog anche un post molto critico come quello di Erica, benché non fossimo tutti d’accordo con quanto affermato.
La vicenda che si discute è delicata e richiede l’attenzione di tutti nel moderare i toni, per evitare giudizi affrettati e perentori dettati da coinvolgimenti troppo personali.
La testimonianza raccontata da Repubblica è una voce e una storia e come tale andrebbe considerata. Non si tratta di fare battaglie tra i pro e i contro, non si tratta di trovare gli eroi o di smascherare i bugiardi, è l’occasione giusta, invece, per dimostrare un po’ di sensibilità. Dietro questa lettera c’è una persona che ha scelto, certamente non con leggerezza, di denunciare una sua esperienza e di affrontarne le conseguenze. Che si apra volentieri un confronto ma prima di scegliere il vessillo per il nostro schieramento chiediamoci come siamo arrivati a questo punto.

In una città universitaria di medie dimensioni del Nord Italia, un ragazzo denuncia a “La Repubblica” di aver subito delle angherie e insulti omofobi durante la cosiddetta “matricolatio”.
Per taluni questa non è una novità: la goliardia fa parte della tradizione pavese, anche quando diventa pesante.
Pare, quindi, che Repubblica abbia scoperto l’acqua calda, se non fosse che le accuse di omofobia e nonnismo diventano lesive dell’immagine dei collegi pavesi.

Ora, è bene dire che non tutte le matricolatio sfociano in violenze, tantomeno che i collegiali sono tutti nonnisti scriteriati, al contrario.
Quella di Mattia (che ha volutamente nascosto il proprio nome per cercare di evitare ulteriori soprusi), è però una storia che deve fare riflettere.

Magari non è un caso nazionale, ma può essere utile a ripensare certi riti.
Perché talvolta in nome di una tradizione si tende ad esagerare, chiudendo spesso un occhio: se è vero che il kulo può essere un modo per far mettere in contatto matricole spaesate, provenienti da regioni diverse, è altrettanto vero che quegli adulti a cui si è accennato spesso sono assenti e giustificano comportamenti che al di fuori dell’ambiente collegiale probabilmente non vengono capiti, premesso che uno studente universitario è già sufficientemente grande per prendersi le proprie responsabilità.
Rattrista sapere che Mattia, ma forse non solo lui, decida di rimanere in collegio, nonostante un ambiente ormai ostile, nell’impossibilità di poter pagare un altro alloggio.
Se l’errore di Repubblica è stato quello di prendere l’esperienza negativa di un singolo soggetto ed esasperare i toni, il merito sta nel fatto di aver indotto le persone a riflettere, a parlarne, a confrontarsi, proprio come si sta facendo su questo sito oggi.
Se, come si è sentito dire tanto in questi giorni, i responsabili sono casi isolati, è bene prendere una posizione forte, riconoscendo quando si superano certi limiti, trasformando una brutta pagina in un’occasione di crescita.
L’idea non è quella di demonizzare la matricola, né tantomeno i collegi: le attività culturali collegiali, in particolare, sono fonte di orgoglio per un ateneo così antico come il nostro.
Per questo pensiamo che chi ama i collegi, o quantomeno l’ambiente universitario pavese in generale, debba avere tutto l’interesse a rifiutare queste situazioni, delegittimandole senza se e senza ma e prendendo le distanze, non dai goliardi  ma dai bulli. Come dire che giustificare sempre e comunque non è di certo costruttivo, a maggior ragione in un luogo di formazione.
Come sempre, la verità sta in mezzo: non è da una singola storia che si può capire qual è il contesto collegiale pavese ma forse può costituire un momento di riflessione, a più ampie vedute.

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