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Public speaking: la palestra della comunicazione

Probabilmente deciderai dalle prime due righe di questo articolo se continuare a spendere parte dei tuoi minuti per leggerlo oppure investire il tuo tempo in altro. Il nostro cervello impiega la quinta parte di un secondo per classificare una nuova conoscenza tra gli amici o i nemici. E la stessa dinamica viene applicata in quasi tutti i campi in cui è chiamato a prestare attenzione.

Se sei arrivato fin qui, questo ti incuriosisce e sono sicura che potrebbe interessarti anche come fare a tener alta l’attenzione nel momento in cui sei tu dalla parte che deve proferire e la posizione amichevole e confidenziale del giudizio altrui ti sarebbe sicuramente d’aiuto.

Nella quotidianità ci troviamo in situazioni in cui dobbiamo, più o meno piacevolmente, esporci, per esempio davanti ad una commissione esaminatrice o, molto meno tragicamente, nello svolgimento delle normali abitudini di far la spesa, conversare con gli amici, dibattere su un’idea, mettersi d’accordo per un’uscita, far presente un problema e molto altro.

La nobile arte oratoria ha radici profondissime e per trovarle, è necessario scomodare l’antica Grecia, al tempo in cui Platone, Aristotele e Socrate si cimentavano con i propri allievi nell’insegnamento delle tecniche per migliorare le qualità retoriche. Plasmata e portata avanti dai Romani, non si può non nominare la prolissa svolta data dal modello ciceroniano che ha dominato indiscussa per molti decenni.

Ma torniamo a noi e alla nostra spesa; oggigiorno le tecnologie che assistono il public speaking, ovvero l’arte del tenere un discorso davanti a un pubblico, seguono il Lawssell’s model of communication che include cinque parametri: il retore, l’argomento, il canale di comunicazione, il pubblico ricevente e gli effetti che si vogliono produrre. Molte risorse però si sono aggiunte negli anni, dalle telecomunicazioni alle videoconferenze; i metodi per comunicare con le masse del mondo sono cambiati, ma molti dei problemi di efficacia non si sono risolti.

Uno dei più grandi palcoscenici per tenere grandi discorsi spaziando su molte materie è TED, un marchio di conferenze nonprofit statunitensi che con il motto ‘ideas worth spreading’ sostiene idee valide e condivisibili in discorsi di lunghezza variabile che non vanno mai oltre i 18 minuti. Infatti la prima cosa da tenere in considerazione per un buon discorso è la brevità dello stesso, il minutaggio è necessario affinché gli ascoltatori possano non perdere la concentrazione e seguire il filo logico. Nel tempo del discorso bisogna mettere in chiaro un’idea valida che si vuole comunicare, con il pubblico si instaurerà una sorta di connessione cerebrale per cui lo stesso sarà indotto a ragionare attraverso gli stessi circuiti utilizzati dall’oratore. È importante anche come viene raccontata quest’idea, invece che snocciolare delle informazioni risulta più avvincente costruire una storia che ne narri lo sviluppo; in buona sostanza è importante far viaggiare il pubblico con noi, dalla nascita allo sviluppo del messaggio che vogliamo lasciargli, farlo crescere attraverso le stesse tappe a cui siamo approdati per dare l’impressione alla fine di sentire le stesse sensazioni e giungere alle stesse conclusioni.

Questo viaggio sembra alquanto complicato ma bastano piccoli accorgimenti per modificare sostanzialmente la qualità del discorso. Innanzitutto il tono di voce, deve essere modulato rispetto a ciò che stiamo narrando, e anche il ritmo, incalzante nelle parti che lo richiedono e più lento e ondeggiante nelle parti che fissano i concetti fondamentali. La palestra teatrale aiuta nello sviluppo di queste abilità.

Non meno importante è il linguaggio non verbale: una stessa Ted talk tenuta da Amy Cuddy ne parla ampiamente. Il linguaggio non verbale veicola circa il 90% della nostra comunicazione secondo una ricerca degli anni ’70 condotta da Albert Mehrabian, psicologo statunitense. Il nostro corpo parla, anche quando non è espressamente autorizzato e comunica con gli altri corpi, dando alle volte anche spiacevoli segnali che non sono previsti. Le prime manifestazioni del nostro corpo riguardano la posizione di dominio e forza, la sicurezza nel padroneggiare l’argomento e come l’oratore si sente quando ne parla.

Il rapporto con lo spazio è la legenda utile ad interpretare questo linguaggio. Jessica Tracy, insegnante di psicologia alla Columbia University, ha individuato nell’espansione fisica la posizione di supremazia e potere: più l’oratore è padrone dello spazio circostante, più mostra sicurezza. Gli ascoltatori, invece, sono meno disposti a prestare attenzione se si mette una barriera fisica tra gli stessi e l’oratore, o se quest’ultimo si scherma con le braccia e le mani nascondendo il viso; un’eccessiva gesticolazione porta invece l’ascoltatore a distrarsi, ponendo l’accento sul movimento del corpo e non più su quello che si sta dicendo.

In Italia il public speaking non ha mai goduto di grande considerazione, per non parlare del politichese che meriterebbe uno spazio apposito. Soprattutto i giovani non sono allenati a tenere discorsi e finite le scuole superiori si ritrovano in un modo che pretende sicurezza, idee, validità ed efficacia ed un certo savoir-faire. La strada è lunga ma l’importante è mettersi in cammino! Che aspettate per mettervi alla prova?

Annamaria Nuzzolese

Nata ad Altamura. Studentessa di Giurisprudenza all'Università di Pavia. Caporedattrice dal 2019, redattrice dal 2017, ambito d'interesse: geopolitica e attualità.

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