Pontremoli risponde I | Cos’è il counseling?

Convegno SCFA 1 bnLaureato in filosofia all’Università di Pavia, Pietro E. Pontremoli è oggi un counselor conosciuto nel suo ambiente. Con ormai varie pubblicazioni alle spalle, lunga esperienza in diverse discipline e un’infinita pazienza, Pontremoli ha gentilmente accettato di rispondere alle domande di Inchiostro su un tema che lascia perplessi i più: il counseling. Nel migliore dei casi l’avrete sentito per sbaglio o avrete visto una locandina appesa in una bacheca di via Mascheroni, lungo le vetrine di Limoni. Se invece avete già dei rudimenti, sappiate che c’è da sapere molto più di quanto pensiate.  Questa piccola rubrica, “Pontremoli risponde“, è divisa in 4 episodi e 5 domande:

1) Cos’è il counseling?

2) A chi si rivolge?

3) Caratteristiche, metodo, tecniche e filosofia.

4) Counseling, psicologia e situazione italiana.


Per non deviare la domanda e nel rispetto di chi me la ha posta, avanzerò una definizione, ma chiedo la cortesia di leggere le successive argomentazioni per non essere fuorviati.

In terminologia una definizione serve a delineare il concetto e ad indicarne la sua area d’uso. Qui mi riferisco ad una definizione specialistica che descrive il concetto all’interno di un determinato campo semantico: Il Counseling è una pratica nell’ordine delle relazioni d’aiuto, sottordine delle relazioni non-di-guarigione. Probabilmente, la definizione riportata, non appaga il desiderio di sapere di chi legge e dunque cercherò di seguito di argomentare in maniera esaustiva. Assumendo che la sofferenza (dal lat. tardo sufferentia «sopportazione, pazienza», der. di suffĕrens,entis «sofferente») sia un “attributo costitutivo” dell’uomo e che le difficoltà specifiche ed attuali costituiscano una norma (nel senso statistico di “massimamente frequente”) nell’intero arco d’esistenza, si intende mostrare che il counseling agisce nel contesto della “normale sofferenza”, differente da quello della “patologica sofferenza”: un dualismo reale e discretamente definito. La sofferenza, come “attributo costituente” dell’uomo, più che essere “curata” o “guarita” – preciso che curare e guarire non sono la stessa cosa – non essendo una malattia nel senso medico-clinico, dovrà essere riconosciuta e gestita attraverso, ad esempio, un approccio ermeneutico che nel counseling trova realizzazione.

Se non si ammettesse ciò e se così non fosse, cioè se non si considerasse la sofferenza come un “attributo costitutivo” della normale condizione dell’uomo, e la si considerasse alla stregua di una malattia, allora cadrebbe ogni distinzione – per quanto difficoltosa – fra condizione normale e patologica. Inoltre, se si seguisse questa linea di pensiero, per cui tutti sono malati, allora bisognerebbe ammettere che anche chi cura è persona malata e, seppur nulla osti alla cura se anche fosse praticata da un malato, bisognerebbe allora sapere con quali criteri si potrà poi ritenere che la cura sia portata avanti bene, cioè in base a quali indicatori si potrà constatare che la cura è buona, dato che la sofferenza è come la patologia ed è provata in eguale – o simile – misura dal malato e dal ‘guaritore’, anch’egli malato.

Søren <>So bene che molto di quanto esposto ha carattere di vaghezza perché né la sofferenza né la patologia sono campi ben delimitati e questo ci porta a concludere che per verificare e controllare i limiti dobbiamo riferirci a indicatori interni, non esterni. Mi spiego. Per quanto si possano costruire modelli esplicativi inerenti la triade normalità-sofferenza-patologia, sarà la persona a poterci dire e dare informazioni determinanti. Per cui non sarà – per dirla tecnicamente – fuori dalla clinica il metodo di controllo, ma dovrà essere intraclinico. La sofferenza – che rappresenta dunque il dato incontrovertibile della situazione dell’uomo nel mondo – non è una ‘cosa’ propriamente detta, un oggetto fisico, ma esiste solamente nella stessa maniera in cui esistono altri concetti teorici e la soggettività rappresenta la determinante di questa sofferenza. A dimostrare ciò la pluralità di interpretazioni della sofferenza e della malattia nel campo delle scienze e delle discipline che si avvalgono del metodo sperimentale negli ultimi centocinquant’anni circa. Nel panorama attuale esistono diverse concezioni della malattia mentale, ma rilevo che ad accomunare tutte è il fatto che la sofferenza esiste e può ‘diventare’ altro, cioè malattia (comunque la si consideri).

Essendo dunque un concetto teorico, la sofferenza non può essere misurata al pari di un oggetto fisico e si determina a seconda del risultato: se cioè alla persona sia rimasto un sufficiente grado di capacità di godere della vita e di fare nella vita. Senza dimenticare che, in una serie di casi, l’uomo si “accomoda” sulla propria sofferenza in modo così ben organizzato che la sua eliminazione potrebbe comportare l’insorgere di una sofferenza ancor più grave. Al mondo – lo evidenzio per precisione – non vi è ‘solo’ misera sofferenza, ma anche sofferenza reale e irrimediabile che può esigere il sacrificio della salute stessa. Per questa ragione non si deve parlare solo di “cura” o “guarigione”, ma anche di “conoscenza” e “gestione” della propria sofferenza. La sofferenza è uno stato fondamentale e ineliminabile dell’essere umano. Lungi dall’essere una visione pessimistica – perché altrimenti sarebbe parziale – quanto detto si richiama al realismo.

 Scriveva Kierkegaard:

Come il medico può certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano, così, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo il quale non sia alquanto disperato, non porti in sé inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa che egli non conosce o che non osa ancora conoscere, un’angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo, cova anche lui una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’è dentro”.

 – Kierkegaard S., La malattia mortale, Mondadori, Milano, 2009, p. 23.


constrastare-lo-stress-riemdi-moderniPer comprendere le implicazioni di questo punto di vista, è necessario distinguere fra attributi costituenti e attributi contingenti. Per esempio, una tazza ha come attributo costituente l’essere cava e come attributo contingente l’essere di porcellana. L’eliminazione della qualità costituente comporta che quell’oggetto cessi di essere ciò che è. Su queste basi il counseling fonda la propria autonomia operativa che non deve essere confusa con esclusiva operatività del counseling nel campo della sofferenza. Premesso che, dunque, una qualità costituente dell’uomo è la sofferenza e precisando che essa può essere causata anche da difficoltà attuali e specifiche, ne consegue che il professionista counselor potrà essere funzionale al miglioramento della vita della persona che – libera di scegliere ed informata sulla natura e la metodologia del professionista in questione – si rivolge al counselor.

Faccio notare e ricordo che non ho usato e non userò neppure di seguito il termine ‘benessere personale‘ perché risulta un termine assai vago e privo di specificità: è un termine sfocato (fuzzy). Non lo userò perché non possiamo – o sarebbe preferibile non farlo –  rappresentare la conoscenza di un esperto umano attraverso l’uso di termini vaghi di descrizione. So bene che anche il termine sofferenza può essere considerato fuzzy, ma per questo ho precisato che la soggettività ne rappresenta la determinante. Dunque, non sono io a decidere della tua sofferenza, ma sei tu che me la riporti. Inoltre, ho precisato che rispetto a tale sofferenza non c’è un solo professionista atto ad aiutare, ma più professionisti che, in un sistema liberale e liberista come il nostro, possono diventare quello di riferimento per la persona che sceglie liberamente, essendo correttamente informata.

Il benessere (well-being in inglese) – da intendere come ciò che è buono per l’individuo, ciò che incrementa la qualità della vita dell’agente – è una nozione estremamente dibattuta, ma poco indagata. È un concetto multidisciplinare che ricopre significati diversi e peculiari in varie discipline (filosofia, etica, politica, economia, teoria della scelta sociale, medicina, psicologia). Il counseling certamente è un’attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente: ciò rende l’indagine del well-being particolarmente interessante ed utile in questo contesto, perché se da una parte dire che il counseling concerne il benessere dell’individuo sembra chiarirne il campo d’azione, a un’indagine più dettagliata tale affermazione si rivela troppo vaga e indeterminata. Per lealtà argomentativa ed intellettuale, dunque, non userò la parola ‘benessere’ perché sarebbe un uso improprio essendo un termine vago ed altrettanto vago sarebbe definire il campo d’azione. Ogni professione – e questa è una questione morale più che deontologica – ha i suoi confini, limiti, campi d’azione. Se, però, uso termini vaghi per definire il mio campo d’azione allora de-liro cioè – etimologicamente – esco dal solco che io stesso non ho saputo tracciare, ma ho avuto l’ardire di volerlo fare. Desidero inoltre puntualizzare quanto argomentato facendo appello ad un linguaggio scientifico-matematico (attingo dunque dalla Teoria delle biforcazioni). È evidente che l’essere umano sia un sistema dinamico e complesso che vive cambiamenti critici che possono portarlo a ‘catastrofi’ e dunque richiedono (e l’individuo può desiderare) il raggiungimento di una nuova stabilità e di un nuovo stato di discreto equilibrio. Premesso e puntualizzato questo, aggiungo che un intervento di counseling può essere richiesto ed utile anche laddove la persona ritenga la sua vita soddisfacente, ma per stabilizzare l’equilibrio di cui sopra decide di migliorare ulteriormente il livello delle proprie capacità di scelta, di relazione, di ragionamento.