AttualitàIntervistePoliticaSenza categoriaUniversità

Performance e società – Intervista al professor Fabrizio Fiaschini

di Stella Civardi e Chiara Sabbioni

Dall’ambito artistico a quello sociale, la performance è una forma di espressione che, a partire dall’inizio del secolo scorso fino ai giorni nostri, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tanto nella sua declinazione più classica (artistica), quanto nella sua variante più quotidiana (sociale). Abbiamo avuto la possibilità di intervistare Fabrizio Fiaschini, docente di Storia del teatro e dello spettacolo e di Teoria e tecnica della performance all’Università di Pavia, che nelle sue ricerche si occupa di approfondire e divulgare la realtà della performance e i performance studies, ancora poco conosciuti in Italia, ma sempre più importanti come focus particolari da adottare nella ricerca e nello studio della nostra società.

Che cos’è la performance?

Definire la performance è complicato perchè si tratta di un concetto molto complesso. Restringendo il campo al solo ambito del teatro, con il termine performance possiamo intendere un particolare genere teatrale che in questi ultimi vent’anni si sta affermando sempre di più. Tuttavia, l’origine del termine performance è associata, a sua volta, a due termini che non hanno nulla a che fare con arte e teatro: efficacia ed efficienza (vedi ad esempio la performance sportiva, o in riferimento ai dispositivi tecnologici). Se vogliamo trovare una mediazione, possiamo dire che la performance è riconducibile al concetto di azione e, associarla a questo concetto, ci permette di introdurla anche nell’ambito degli studi teatrologici. La matrice del teatro è, infatti, l’azione.

Quale tipo di azione viene compiuta nella performance?

L’azione performativa è il grado zero dell’azione compiuta: è fissata sul puro agire, rompe la sua quotidianità e la sua superficialità per comunicare autenticità e immediatezza, liberandosi dagli stereotipi e dalle formalizzazioni. L’azione ridotta al grado zero permette la riflessione e l’attribuzione di significati profondi ed essenziali all’azione stessa. Questo genere di azione caratterizza due dimensioni estese del teatro: quella rituale e quella sociale. L’azione rituale e quella sociale non sono artisticamente finalizzate, ma travalicano la dimensione artistica per configurarsi come attività umana di intervento e modificazione della realtà, tramite la mediazione del corpo. Lo studioso Richard Schechner parla di un “ampio spettro” di significati dell’azione performativa, che comprende il rito, il gioco, la dimensione sociale e anche quella artistica.

In ambito artistico, in che modo l’azione performativa si oppone al concetto di rappresentazione?

La performance è concepibile più come processo che come prodotto. Nella processualità si dà importanza non solo al momento in cui l’azione avviene, ma anche a quello prima e a quello dopo; nella rappresentazione, invece, si tendono a considerare soprattutto gli esiti del processo compiuto. Ciò non esclude che poi la performance abbia effettivamente delle condizioni di rappresentazione in cui diventa spettacolo, però la sua identità si sviluppa principalmente in termini processuali e non è limitata al concetto comune di spettacolo: l’ampio contesto della performance va oltre i canoni e gli ambiti artistici tradizionali.

Qual è il rapporto tra performance e pubblico?

Uno dei dogmi della rappresentazione e dello spettacolo è la concezione di questi ultimi come opera compiuta che viene mostrata a un pubblico, tradizionalmente inteso come spettatore passivo. La performance innesca una processualità che rompe la classica separazione tra attori e spettatori, tra chi agisce e chi guarda, e istituisce un nuovo rapporto tra performer e pubblico: il processo performativo si costruisce ogni volta in modo diverso in base alle relazioni tra spettatori e attori. La performance favorisce quindi la partecipazione attiva del pubblico: gli spettatori sono consapevoli dell’azione a cui assistono, così da farla propria e ricordarla, ponendosi interrogativi che li conducono a una riflessione profonda. Tuttavia, come afferma il filosofo Jacques Rancière, questa partecipazione non deve essere indotta forzando la dimensione spettacolare, ad esempio con effetti speciali ed espedienti di varia natura (come condurre lo spettatore sul palcoscenico per obbligarlo a interagire con gli attori). Così facendo, il tentativo di coinvolgere lo spettatore diventerebbe un modo per ribadire la sua lontananza rispetto alla performance, rafforzando il meccanismo di rappresentazione che si intendeva sovvertire.

Cosa contribuisce a rendere labili i confini della performance?

I confini sono labili perché labile è il concetto base di performance. Dato che l’azione della performance è strettamente connessa al concetto di comportamento umano, il confine artistico, soprattutto nella dimensione processuale della performance, travalica in quello sociale o in quello rituale. L’azione all’interno della performance – considerata come una delle forme privilegiate del comportamento umano – non è circoscritta ai singoli ma si estende anche ai gruppi: l’individuo è sempre concepito come parte di un gruppo con cui stabilisce una relazione. Infatti, in ambito rituale e sociale, l’azione dell’individuo è sempre parte di un’azione più grande che attribuisce valore e senso a quella dei singoli.

Quale è il rapporto tra performance e politica?

Il rapporto tra performance e politica è connesso al concetto di azione. La politica è una forma di comportamento umano sociale, è una delle modalità di azione con cui il singolo realizza la sua partecipazione alla vita sociale collettiva. La performance può essere però concepita anche come evento che sviluppa azioni politiche di cambiamento sociale (come ad esempio le proteste), favorendo i processi di trasformazione della società, spesso in contraddizione con il potere. Se quindi consideriamo la performance come una sorta di antidoto alle norme costituite dal sistema, possiamo ricondurla ai concetti di gioco e di partecipazione.

In che modo la performance diventa espressione del cambiamento della società?

La performance diventa strumento di contraddizione politica del sistema quando si qualifica come azione ludica. Il gioco per sua natura è un’azione di distruzione e ricomposizione della realtà: l’azione ludica destruttura, per poi ristrutturare e quindi rinnovare l’ordine e i significati che attribuiamo alle cose e anche al nostro agire. D’altra parte, il gioco può essere anche violento: il bambino rompe gli oggetti con cui gioca per scoprire il loro funzionamento; nel riassemblarli se ne appropria, rinnovandoli con l’aggiunta del suo contributo creativo. Il gioco contraddice la norma e il significato attribuiti alle cose. L’azione performativa diventa politicamente trasformativa, introducendo i cambiamenti sociali, perché scompone gli elementi della realtà per poi ricostruirli, rinnovandoli.

Qual è la relazione tra azione performativa e azione ludica?

L’azione ludica non è mimetica, cioè non viene intesa come imitazione, ma come incorporazione. Nel gioco il bambino non imita (il come se) la realtà ma la incorpora (il farsi come): ad esempio, il bambino che gioca a fare il fantasma dietro a una tenda non sta imitando la forma della tenda, bensì ha incorporato e fatto sue le caratteristiche della realtà. In questo senso il filosofo Walter Benjamin parla di “innervazione”: fare propria la realtà per trasformarla. Quindi, grazie a questa dimensione ludica, l’azione performativa diventa trasgressiva perché modifica i significati della realtà e li ricompone in modo diverso: questa diventa l’immagine del futuro, quindi di una società diversa e trasformata. L’azione ludica è strettamente legata al concetto di profanazione: come afferma il filosofo Giorgio Agamben, l’azione profanatoria implica la desacralizzazione, cioè la restituzione all’uso di ciò che era stato reso sacro e quindi separato dalla quotidianità. Lo strumento per la profanazione è il gioco, che permette di modificare la realtà, desacralizzandola.

La potenza della performance può essere utilizzata in un contesto positivo e inclusivo (ad esempio i Gay Pride) ma anche in contesti non democratici (come i cortei neonazisti), in cui si punta ad escludere e a uniformare: che cosa distingue la performatività inclusiva da quella esclusiva?

La performance, in quanto processo di destrutturazione, ha un esito incerto, perché espone la realtà al caos e al cambiamento, e quindi al rischio che la sua ricomposizione possa essere positiva così come negativa. Ad esempio, sia i Gay Pride sia i cortei neonazisti si servono della performance per mettere in crisi e cambiare il sistema. Tuttavia, c’è una differenza che ci permette di riconoscere quando l’azione performativa si dirige verso un contesto negativo e non inclusivo: quando l’azione della performance non è apertura a un futuro possibile, ma diventa una risposta che definisce già il sistema che deve essere rinnovato. Nei cortei neonazisti, la configurazione del futuro sistema possibile è già rigorosamente determinata e stabilita da elementi che ricorrono nella performance: l’ordine, la disciplina, il corpo rigido. Se invece consideriamo i Gay Pride, l’azione ludica destrutturante punta a scardinare il rigido concetto di identità di genere, per aprire la realtà a tutte le possibilità del caos creativo. La performance che non introduce domande, ma offre già risposte, tenta di imporre una realtà possibile dominata da uniformità ed esclusione.

Gay Pride

Cosa si intende per componente performativa, in particolare riferendoci agli studi di Judith Butler?

Per Judith Butler il valore performativo è quello di restituire le minoranze allo spazio pubblico di apparizione.
All’inizio dei suoi studi, la Butler usa il concetto di performativo non in senso trasformativo, ma nell’accezione di efficacia ed efficienza, ricollegandosi ai linguisti Austin, Peirce e Searle che stabilivano come performativa quella particolare capacità del linguaggio di realizzare ciò che dice, come ad esempio i verbi che esprimono l’azione e la realizzano, apportando modifiche alla realtà. Un chiaro esempio che fa la Butler è il rituale del matrimonio, in cui gli sposi, pronunciando la formula “prendo te come mio legittimo sposo”, mettono in atto un performativo che è obbligante e va a modificare concretamente la realtà. Dunque il performativo è fortemente condizionante rispetto alla realtà, perché obbliga tramite l’azione. La performance ludica, che destruttura per ricostruire la realtà, assume valore politico perché può rompere questo aspetto obbligante del performativo, destrutturando quello che essa stessa ha paradossalmente realizzato.

Qual è l’obiettivo della performance in relazione all’espressione “Alleanza dei corpi” coniata da Judith Butler?

Le minoranze a cui è negata l’identità sociale perché sono relegate in una dimensione sociale attribuita dal sistema, che le pone ai margini della società, possono riappropriarsi dello spazio pubblico attraverso la performance. Quest’ultima è quindi spazio di un’apparizione, perché agendo ci si riappropria dello spazio sociale, oltrepassando la soglia entro la quale la minoranza era stata confinata. Quando lo spazio è stato riconquistato, si riguadagna anche la possibilità di essere presenti e quindi di ripensare lo spazio occupato. I corpi che si riappropriano dello spazio pubblico possono farlo solo tramite un’alleanza tra di loro, cioè un patto che si sancisce nella diversità. La performance ha dunque funzione politica: ridisegna le condizioni e riformula una nuova identità possibile dello spazio pubblico e di chi lo occupa. Citando Rancière, “lo spazio pubblico può diventare uno spazio dei possibili”, cioè uno spazio di possibilità dove tutti possono essere al posto di tutti, anziché essere obbligati a stare al proprio posto.

Oggi il fenomeno delle manifestazioni è di nuovo all’ordine del giorno: perché è ritornata l’esigenza di manifestare?

Penso che oggi siamo di nuovo in una fase in cui la crisi dei meccanismi di appartenenza, di identità, di socializzazione, insieme ai rischi ambientali di un ecosistema che sta esplodendo, sia così profonda che è sempre più necessario far sì che la performance possa porre queste questioni in senso creativo, cioè possa restituire a tutti la capacità di sentirsi attori di un cambiamento e non solo fruitori passivi di qualcosa che viene imposto. La performance è molto praticata perché esprime il bisogno che tutti abbiamo di sentirci autori di un cambiamento possibile insieme agli altri; il cambiamento deve partire da una messa in discussione ludica e giocosa della realtà, in vista di una ricomposizione altrettanto ludica e giocosa, aperta su un futuro possibile e rinnovato, non definito in base al passato.

Sciopero Globale per il Clima, Milano

Perché spesso i partecipanti alle manifestazioni vengono attaccati e criticati?

La diffidenza o addirittura l’attacco esplicito sono direttamente proporzionali all’efficacia dell’azione. Una persona è tanto più ostile quanto più viene toccata o messa in crisi da ciò che sta accadendo. Pensiamo ad esempio alla figura di Greta Thunberg e a tutti gli attacchi molto violenti che le sue parole e le sue performance hanno suscitato: la sua azione in realtà è andata a toccare le coscienze, ponendole di fronte a un problema, mettendo quindi in crisi il sistema. La performance non produce un cambiamento reale, ma mette in luce dei problemi e destabilizza la realtà. Lo scetticismo e l’aggressione sono indirizzati a questo genere di azioni perché mettono in crisi il sistema, e non perché puntano a risolvere i problemi, proponendo soluzioni incompatibili con il sistema. La performance non realizza già il cambiamento, ma introduce un meccanismo di destrutturazione della realtà che mette in crisi il sistema. Non offre soluzioni ma crea una dimensione possibile, all’interno della realtà, in cui può avvenire il cambiamento: un’alternativa nascosta della realtà, una ricostruzione fragile e instabile, ma libera e autentica.  


[1] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano, 2015.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *