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ANTEPRIMA: “Orange is the new black” – Stagione 6

Fino ad una settimana fa non avevo mai visto un episodio di Orange is the new black. Mia mancanza, naturalmente. Ho affrontato, quindi, sei stagioni in sette giorni (il binge-watching estremo), fino ad approdare alla sesta stagione, in uscita su Netflix il 27 luglio.

Il finale della quinta stagione aveva coinciso con la fine della rivolta al carcere di minima sicurezza di Litchfield, conclusasi con l’incursione dei militari nell’edificio. Piscatella muore per mano di un militare troppo inesperto; le detenute vengono trascinate fuori e smistate arbitrariamente su due autobus, di cui non si conoscono le destinazioni.

La nuova stagione si apre nel carcere di massima sicurezza di Litchfield, dove ci vengono mostrate solo dieci detenute note, rinchiuse in regime di semi-isolamento. I federali stanno conducendo le indagini sulla rivolta e sulla morte di Piscatella, dividono le ragazze, le mettono le une contro le altre: dopo l’unione della rivolta, si passa al terrore. E i primi episodi passano così, nella paura di una pugnalata alle spalle, di un aumento di pena, della perdita di dignità. Con la fine progressiva degli interrogatori, le ragazze vengono tolte dal semi-isolamento e smistate in tre bracci diversi: Florida, il braccio B, una sorta di paradiso geriatrico, dove vengono rinchiuse le prigioniere più deboli, e i bracci C e D, costantemente in lotta da più di trent’anni. Si ritrova qui l’atmosfera della prima stagione, quel senso di spaesamento e apprensione, ma a ritmo lento, per poi scoprire che i nemici sono più forti e spaventosi finché non li conosci.

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Sì, perché i nemici di questa sesta stagione danno più fastidio di quanto facciano paura: Madison, autoproclamatasi Badison, ha l’aria e lo spessore di una bulla da scuola media e si rivela da subito soltanto un pesce piccolo nell’acquario del braccio C. Non che le sorelle Barb e Carol ci facciano una figura migliore: da più di trent’anni, la loro faida famigliare ammorba il braccio C e il braccio D, in una lotta perpetua tra divise blu e cachi. L’effetto finale è quello di una West Side Story piuttosto grottesca, capeggiata da due donne sulla sessantina che non sembrano aver mai superato le loro turbe adolescenziali. Insomma, siamo ben lontane dalla sottile lotta tra Red e V.

Si confermano invece dei gioiellini di scrittura creativa, le protagoniste rimaste. Piper, più positiva che mai, impegna tutta se stessa per non spendere i suoi ultimi mesi in prigione nell’ozio. Cindy e Suzanne custodiscono un segreto; Frida, improvvisamente invecchiata e ormai in pensione, si rintana nella Florida, al sicuro da antiche inimicizie. Menzione speciale a Dayanara (Dascha Polanco), Taystee (Danielle Brooks) e Red (Kate Mulgrew): Daya, dopo la confessione, cade nella straziante spirale discendente di una ragazza appena ventenne che sa dover passare la sua intera vita in carcere; Taystee rifiuta il patteggiamento, confermandosi paladina di quei diritti che si era concretamente impegnata a difendere durante la rivolta; infine Red, detronizzata e letteralmente sbiadita, lotta per ritagliarsi un posto nella gerarchia della sua nuova casa, cerca di entrare a far parte di una nuova famiglia di cui, suo malgrado, non può essere la matriarca.

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OITNB ribadisce la sua capacità di raccontare le donne in una narrazione che non è – udite, udite! – targettizzata sulle donne. Il femminile non è il tema centrale della storia, eppure è imprescindibile tanto nella trattazione dei grandi temi sociali, come il difficile rapporto tra le guardie e le detenute, quanto nel racconto del quotidiano, con le battaglie per gli assorbenti e i problemi legati alla maternità.

Arrivata alla sesta stagione, tuttavia, non posso non spendere due parole per quello che è, a mio parere, il personaggio meglio riuscito di tutta la serie: Joe Caputo, interpretato da Nick Sandow. Può suonare assurdo, ma la verità è che ognuno di noi è, o è stato, o sarà prima o poi, il Caputo della situazione: colui il quale vede l’ingiustizia, la riconosce ma poi per mancanza di potere, di capacità o, più spesso, di coraggio, non fa nulla di reale per combatterla. L’ho guardato per cinque stagioni alzare la testa per riabbassarla subito dopo. È stato invitato al silenzio, all’egoismo, solleticato da inconsistenti avanzamenti di carriera. Ambiguo e un po’ patetico, ma io gli ho sempre voluto bene. Gli ho voluto ancor più bene durante l’estenuante negoziato con Mrs. Figueroa, mentre si assumeva le proprie colpe in nome di una battaglia che non era direttamente la sua. Nella nuova stagione, Joe Caputo fa un ulteriore passo avanti: ormai slegato dal rapporto professionale con l’MCC, s’improvvisa tenente Colombo, per seguire un ideale di giustizia, con quella sua goffaggine tanto patetica quanto umana.

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Di una serie come Orange is the new black si può dire ancora solo una cosa, cioè che è bella. E, come tutte le serie belle, parla degli esseri umani, senza la pretesa di impartire lezioni. Perché è vero che è ambientata in un carcere e ne porta a galla le condizioni, ed è vero anche che il tema della giustizia attraversa come un filo tutte le puntate; ma ciò che rende OITNB bella è che non ci sono personaggi graniticamente buoni e cattivi perché «Dio ci mette al mondo, e basta. A volte facciamo delle cose buone, a volte meno. Ma il bello è potersi svegliare e scegliere ogni giorno».


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