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Onde: Rak ti Khon Kaen (Cemetery of Splendour, Apichatpong Weerasethakul, 2015)

Partendo dal fondo della filosofia buddista, con i suoi fantasmi destinati all’eterno ritorno – nel nostro caso, i soldati caduti a seguito di una misteriosa malattia in un sonno profondo in cui tornano a combattere secolari battaglie per regni persi nella memoria – Rak ti Khon Kaen (Cemetery of Splendour) diventa un’allucinata riflessione di e sul cinema e, dunque, sul rapporto di quest’ultimo con la realtà, senza cedere alle lusinghe di un effimero divertissement autoreferenziale. La cinepresa si fa ‘cineocchio’, lo spettatore da soggetto guardante si trasforma in oggetto guardato e guardantesi e può accadere, come verso la metà decisamente ‘lynchana’ del film, che lo schermo si trasformi in specchio (espediente che troviamo anche all’inizio del poco interessante Aqui em Lisboa), mostrandoci una sala cinematografica ripresa frontalmente, mentre – la magia del cinema! – i comatosi sullo schermo finiscono col plasmare quelli veri, candidamente addormentati nell’abbraccio delle loro morbide poltrone torinesi. Solo palesando la propria funzione illusoria, il cinema riesce, infatti, ad abolire la cortina frapposta tra sé e lo spettatore, riconsegnando quest’ultimo alla propria identità spettrale.

Come sembrerebbe suggerire l’ultima inquadratura, se la vida es sueño noi siamo i pallidi fantasmi di noi stessi, inconsapevoli visioni di fronte agli occhi spalancati (chiusi) del fantasma cinema, intento a risvegliarsi dal sonno letargico in cui si trova ormai intrappolato per tornare finalmente a discernere tra gli spettri della realtà e la realtà delle sue illusioni.

 

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