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Oltre il muro della schizofrenia

 

“Camminando per la strada delle voci accarezzano le mie orecchie, si avvicinano e mi sussurrano qualcosa. Non capisco, ma diventano assordanti e invadenti. Catturano il mio spazio fino ad impossessarsene e a bloccarmi e a disorientarmi. Continuano, si moltiplicano, ancora e ancora, mi giro, mi guardo intorno, ma nulla. Non c’è niente e nessuno, ma loro sono lì. Loro chi? Loro perché?”

 

Loro sono le voci, i bisbigli che uno schizofrenico sente, che lo confondono, inondandolo di suoni. Questa una delle manifestazioni della schizofrenia, malattia invalidante che conduce l’uomo alla pazzia.

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La schizofrenia è un disturbo psicotico, i cui sintomi si individuano nelle allucinazioni, manie di persecuzione, deliri, disorganizzazione e frammentazione del pensiero, apatia, deficit nella produttività, perdita d’iniziativa, difficoltà a mantenere l’attenzione, compromissione dei rapporti interpersonali, del funzionamento sociale e lavorativo. Vi sono vari tipi di schizofrenia: paranoide, di tipo catatonico, di tipo disorganizzato e di tipo residuo. È una malattia che ha origini genetiche ed ambientali. Si sviluppa nel feto già nelle prime fasi, ha cause ereditarie, è possibile che se un genitore è affetto da tale malattia, la stessa si sviluppi anche nel figlio. Un esempio è il caso di John F. Nash, il matematico elaborò la teoria dei giochi, premio Nobel per l’economia. Un genio della matematica, che fu affetto da schizofrenia. Alternanza di razionalità e irrazionalità, di perfezione del numero ed irregolarità dei pensieri. Una mente che sfugge al controllo e cade vittima di una realtà che lo lega per un tempo tale da porlo ai confini della disperazione. Racconta egli stesso che da piccolo la sua mente cominciò a viaggiare in una realtà diversa, in cui immagini e suoni lo allontanavano dal mondo reale. Una continua alternanza tra poli opposti a cui non riusciva ad opporsi, cadendo vittima del lato più oscuro della mente. La stessa malattia caratterizza il figlio, il dottor John C. M. Nash brillante ed eccentrico ricercatore matematico. Anche lui si muove nell’altalena che oscilla tra logica e offuscamento della mente, una gabbia in cui un corpo indifeso si dimena affannosamente.

La malattia si manifesta tra i 17 e i 30 anni negli uomini, tra i 20-40 anni nelle donne. La diffusione della schizofrenia è relativamente bassa, 1% in tutto il mondo e si riscontra in tutte le classi sociali, senza distinzione di sesso, razza, territorio. Chi soffre di questa malattia è risucchiato in un terribile vortice, i cui sintomi non sono spesso riconosciuti o vengono taciuti, si cerca di sopprimere il dolore con altro dolore, annientando e non accettando così la “mente frantumata”.

LBipolar-Disorder-Tied-To-Risk-Of-Early-Deatha Pazzia non è accettata come parte della realtà e terribile è il modo in cui l’uomo ha cercato di disfarsene. In passato era intesa come male del diavolo, nel Medioevo i pazzi erano bruciati come eretici poi rinchiusi in manicomi e torturati. Nel XIX secolo, iniziarono gli studi sulla malattia. Il termine “schizofrenia” significa “scissione della mente”. Il termine è stato coniato nel 1908 da Eugen Bleuler, aveva lo scopo di descrivere la separazione tra la personalità, il pensiero, la memoria e la percezione. Bleuler descrisse i principali sintomi come le 4 A: appiattimento dell’Affetto, Autismo, Associazione ridotta di idee e Ambivalenza. Nel XX secolo, le cure della schizofrenia erano l’elettroshock e la lobotomia. Quest’ultima era un tipo di operazione terribile, comportava la recisione delle connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo, l’asportazione o distruzione diretta di esse. Era usata in passato per trattare varie malattie psichiatriche come la schizofrenia, la depressione, la psicosi maniaco-depressiva o disturbi derivati dall’ansia. A.E.Moniz fu l’ideatore della leucotomia prefrontale (il primo esempio di queste pratiche), che gli valse il Nobel nel 1949, poi modificata dai chirurghi statunitensi in lobotomia prevedendo la recisione di un numero maggiore di fibre nervose. Il Ddottor Freeman, nel 1945, mise a punto una tecnica che prevedeva l’uso di lunghi strumenti ispirati ai punteruoli rompighiaccio (ice pick lobotomy). Piccoli tocchi precisi, conoscenza del cervello e delle connessioni neuronali, abilità e spettacolo pubblico, questo divenne la lobotomia. I pazienti molte volte rimanevano in stato semi-vegetativo, o mostravano evidenti problemi di linguaggio, rimanevano disabili per tutta la vita. Fra i più famosi lobotomizzati, ricordiamo Rosemary Kennedy (sorella di John). Il padre la riteneva troppo disinibita ed eccentrica, decise dunque di farla sottoporre all’intervento a 23 anni e facendola rmanere per sempre ritardata. Negli anni ’70 furono creati i lobotomizzatori chimici; così, nelle mani del medico, martelletto e punteruolo furono sostituiti da pillole, volte a sedare le facoltà mentali di pazienti instabili.

 

“Alzo lo sguardo e vedo punti brillare di una luce estasiante che arriva fin qui e mi avvolge e mi spinge a seguirla e io la seguo. Sento che lì troverò pace e rifugio da questo vocio frastornante. Pensavo di prendere il volo e salvarmi”.

 

lobotomia

Queste le parole di una ragazza schizofrenica che aveva tentato il suicidio. Molte persone affette da schizofrenia tentano questo gesto disperato e il 10% seguono quel percorso disegnato da quelle luci, indicato dalle voci.
Le voci di cui parlano, spesso insultano lo schizofrenico, sottolineandone i difetti, accentuando il senso di inadeguatezza, invitandoli a compiere gesti omicidi o autolesionisti, segnando sempre più il confine tra lui e il mondo circostante. Vivere all’oscuro, in una realtà lontana intoccabile, mentre oltre quel muro la realtà circostante svanisce come le ombre notturne. Incomunicabilità e disagio, un distacco che diventa desolazione dell’individuo e solitudine.

“Trovarsi in una stanza affollata è un incubo. Le voci si sovrappongono ed aumenta l’incapacità di sentirne solo una. Allora il caos, la tempesta, la fuga, il riparo, l’isolamento. Andare ai confini, vivere nella paranoia e nell’assenza di speranza, chiudendo le finestre degli occhi, quando intorno si ingarbugliano arbusti, che impediscono una via d’uscita. Ali spezzate, ma bisogno di volare via lontano dal caos assordante della propria mente, che rende prigionieri di se stessi.”

Ogni cella però ha una sua serratura, penetrata e aperta dalla sua chiave. La mente è imperscrutabile e misteriosa, ma è possibile ricostruire il puzzle di una “mente frantumata”, guardando i pezzi di un passato difficile e oscuro.
Varie sono state nel tempo le tecniche usate per combattere la schizofrenia, scelte in base alla capacità di alleviare i sintomi schizofrenici e diminuire le probabilità che si ripresentino. Gli antipsicotici sono una terapia attualmente disponibile, ma essi non curano la schizofrenia, limitano la ricomparsa di successivi episodi, potendo creare dipendenza ed effetti collaterali.
Con l’affermarsi di nuovi studi, alcuni psichiatri decisero di tentare un approccio nuovo alla schizofrenia tramite la psicoterapia. Un lavoro duro ed estenuante, consistente nell’uso della psicoterapia per capire se e quali episodi della vita del paziente avessero inciso sulla loro mente, limitando, o escludendo, l’uso di psicofarmaci.

“Innanzi a me un fagotto rannicchiato e ciondolante con gli occhi chiusi e nulla più. Nessuna parola o gesto. Così per ore, giorni, finchè qualcosa cambiò e il fagotto si aprì”. In un celebre libro autobiografico «Non ti ho mai promesso un giardino di rose », Joanne Greenbrg racconta il percorso duro e doloroso della psicoterapia, svolto insieme alla psicoterapeuta Frieda Fromm-Reichmann. Un percorso segnato dalle ricadute, ma l’unico in grado di permettere alla protagonista di acquisire lentamente la consapevolezza di sé e del reale. Tramite ls psicoterapia, ed escludendo l’uso di farmaci, molte persone riuscirono ad attenuare gli effetti della schizofrenia, cominciando così ad avere un dialogo sereno con se stessi, ripercorrendo i lati più oscuri della propria mente. Spesso il passato degli schizofrenici è caratterizzato da eventi terribili e devastanti, traumi che segnano in modo profondo la loro vita. La presenza o assenza di alcuni di questi fattori nella storia di un soggetto schizofrenico e la possibilità di intervenire in momenti diversi dello sviluppo, possono incidere sulla capacità di guarigione dello schizofrenico. Greenberg sottolinea che: «La gente spesso confonde la creatività con la follia. Non c’è creatività nella pazzia; la pazzia è l’opposto della creatività, benché le persone possano essere creative pur essendo affette da una malattia mentale.»
Una “frode della mente” che porta a sentirsi indifesi quando la vita diventa più dura. Quando oltre il confine di sé vi è solo il precipizio, è tuttavia possibile costruire dei ponti, creando quel legame con il mondo, trovando gli strumenti nell’arte, nella musica, nella danza, nella scrittura, nella meditazione, o nello sport, grazie ai quali il paziente riesce ad avere un dialogo sereno con se stesso e delineare il proprio cammino. La musica ha un potere rivitalizzante, aggregante, comunicativo, narrativo e può servire alla cura di disagi psichici come la schizofrenia. Un mezzo espressivo del mondo interno che apre scenari evocativi impensabili.

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Diversi artisti sono sati affetti da schizofrenia. La scissione è sempre presente nelle opere dei pazienti con diagnosi di schizofrenia: secondo alcuni, le rappresentazioni del malato costituiscono un prolungamento diretto della sua personalità e della sua struttura mentale. Edward Munch, che molti presumono essere stato affetto da schizofrenia, quando dipinse “il grido” disse di essere stato ispirato cosi: “Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura, mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”. Le sue opere sono regressioni artistiche nel male di vivere, ricostruzione dei suoi traumi, rivivendo ed esorcizzando i suoi momenti più bui. Come lui anche il ballerino russo Nijinshy, che nel 1918, all’apice del successo, si ammalò di una grave forma di psicosi schizofrenica; il jazzista Tom Harrell, che ha lottato contro la schizofrenia divenendo un noto compositore e trombettista.
Al di là di quel muro vi è una realtà incomprensibile e assurda per chi guarda e per chi è guardato. Per entrambi gli osservatori ci sono dubbi e domande a cui è difficile dare una risposta, finché parlano lingue diverse ed appaiono incomprensibili i gesti. Un approccio indagatore e non repressivo porta ad una possibile comunicazione tra poli opposti, tra sponde di un fiume in cui scorre la stessa acqua della vita.

Oriana Grasso

studentessa della facoltà di giurisprudenza 5 anno INTERESSI: cultura, storia, benessere.

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