Nella cerchia dei furiosi | Alla scoperta dell’ex ospedale psichiatrico di Voghera

Per millenni si è cercato di dare una spiegazione ai disturbi mentali. Ci hanno dapprima provato gli egizi più di cinquemila anni fa, lasciandoci la prima testimonianza sull’argomento; hanno tentato anche gli hindu parlandone nei Veda (trattati risalenti al II millennio a. C.); mille anni dopo i cinesi esplorano l’argomento parlando di forze sovrannaturali. Dopo di loro, Galeno l’affronta nel II secolo d. C., ma serviranno altri duecento anni perché la Chiesa accetti le sue idee. Il Medio Evo ammorbidisce la linea del Vaticano riguardo l’autopsia, situazione che permetterà successivamente a Leonardo di compiere il primo calco del cervello in cera. Si esce dall’epoca oscura, ma continua e anzi imperversa il malcostume di maltrattare i malcapitati, che vengono ritenuti meno che umani e quindi ammazzabili. Per ciò vengono accolti da residenze religiose che proteggono così non tanto la società, quanto il folle da una folla impazzita. Nel mondo moderno le cose miglioreranno solo col ‘900; nella seconda metà del secolo i pazienti dei manicomi cominceranno a prendere sembianze più umane che demoniache, la scienza comincerà a fare chiarezza su molti disturbi offrendo molteplici nuove definizioni.

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Nel 2016, come già accaduto precedentemente, l’associazione Spino Fiorito apre l’elaborato cancello per ospitare i visitatori all’interno dell’enorme struttura, più di sessantamila metri quadrati.

Costruita tra il 1873 e il ’76, il dapprima Manicomio provinciale di Pavia e poi Ospedale psichiatrico provinciale, è stata una struttura all’avanguardia, meritevole per questo di premi internazionali.  Importante in questo fu l’illuminata e positivista guida dei fondatori che traevano le basi dalla fisiognomica di Lombroso, allora professore all’Università di Pavia.

La struttura neoclassica perfettamente simmetrica era in origine ben fuori dalla zona abitata, distante dal Castello e dal Duomo che segnava, e segna ancora, il centro della città. Col tempo e l’urbanizzazione, quello che una volta era il viale della vergogna dei parenti che andavano a trovare gli alienati, oggi non è più periferia. Il che costituisce una sorta di metafora della consapevolezza che si è andata via via a radicare nella società.

La visita si apre con una descrizione storica del complesso, dei fondatori e delle specifiche tecniche. Prosegue lungo il primo arco alla sinistra e si giunge al secondo scoprendo che il luogo era in origine diviso in base al sesso dei malati. Data questa distinzione, si passava poi al grado di pericolosità. Si andava dai tranquilli ai semi-tranquilli, poi suicidi, epilettici (intesi anche come “irosi”), semi-agitati e agitati. E infine, agli estremi si trovavano i furiosi, legati ai letti in stanze circolari, prive di spigoli, le cosiddette “rotonde”. Successivamente, nella seconda metà del ‘900, le cose cambieranno: non si farà più distinzione per sesso e nasceranno anche relazioni, come quella fra Luigina e Mario.

Ci avviciniamo ad un altro arco e facciamo tappa verso il pozzo con tanto di baldacchino sovrastante incorniciato dalle foglie. Questo era parte della precedente chiesa di Santa Maria delle Grazie, ancora oggi consacrata e successiva meta della visita.

Giungiamo quindi all’interno attraversando l’ala maschile (quella femminile è stata adibita ad ASL) e si comincia a notare il degrado della struttura, ufficialmente chiusa nel 1998. Su questo dato dobbiamo soffermarci e risalire brevemente agli anni ’70.

“La legge 180/78, la cosiddetta legge Basaglia, sancisce la fine del manicomio. Essa fu voluta da Franco Basaglia, uno psichiatra rinomato, e dal movimento “anti-istituzionale” e “anti-psichiatrico”. Questo movimento si fonda su una diversa concezione della malattia mentale, non più ancorata unicamente alle proprie basi organiche: si pone la necessità di rintracciare le cause sociali e culturali della malattia mentale. Se la mente si ammala, questo evento non è astorico, ma al contrario legato alla storia e alla cultura di ciascun individuo, all’ambiente in cui è cresciuto. Pertanto, l’istituzione dei manicomi non solo è inutile, ma anche dannosa, in quanto sottraggono il malato di mente all’unico contesto in cui deve avvenire la terapia, cioè l’ambiente sociale, che è anche il contesto in cui nasce la malattia, per cui non avrebbe senso curarla al di fuori di esso.

Con la chiusura degli ospedali psichiatrici, la cura della malattia mentale viene affidata a strutture e servizi regionali.” (contributo di Sofia Frigerio)

Si intuisce dunque come la struttura non sia l’unica ad essere stata abbandonata, ma anche i vari pazienti, che nei migliori dei casi sono stati riaffidati alle famiglie, altrimenti spostati in altre strutture. Non si tratta ovviamente di un vero e proprio abbandono, non vengono lasciati a sé stessi; non di meno è innegabile la necessità di centri riabilitativi, centri appositi e moderni, in cui non si tenti più la via dell’allontanamento dalla società, bensì servono delle realtà che possano riabituare, quando e per quanto possibile, alla vita e soprattutto ad una vita autonoma.

Affermazione sostenuta dal fatto che nella struttura non vi erano solo pericolosi, violenti o ingestibili. Molti erano gli scomodi, gli indesiderati, il figlio o fratello che si volevano estromettere dalla successione, il debole, il diverso, l’ubriaco provinciale che parlando solo il dialetto non si faceva intendere e veniva sbattuto in manicomio.

La lingua era, all’epoca dell’apertura dell’Istituo, in effetti una grande discriminante. Da poco l’Unità aveva investito la Penisola e questo significava la mancanza di una vera e propria lingua, soprattutto nelle provincie rurali, nelle quali l’unico mezzo verbale riconosciuto era appunto il dialetto. Ed ecco che questo dialetto creava in qualche modo un problema per il personale che doveva saperlo parlare per essere ritenuto affidabile dai pazienti, ma divenne anche un punto di forza quando poi, sempre con le modifiche della seconda metà del secolo, gli ospiti furono divsi per origine, in modo da creare un ambiente quanto più famigliare possibile.

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Il centro non era solo sofferenza e negli ultimi momenti ha visto una vera e propria apertura verso l’esterno. Veniva pubblicato un giornale scritto dai pazienti, erano messi in scena spettacoli aperti al pubblico, durante i quali i malati si confondevano con quelli di fuori; si portavano avanti progetti artistici da esporre e non più da nascondere. A tal proposito sono ancora visibili certi graffiti incisi sulle pareti, che si mischiano alle incisioni fatte più recentemente da altri.

Camere vuote, targhette sulle porte, finestre invase dalla natura. Questo è oggi l’ospedale psichiatrico, un tempo all’avanguardia e ora vessillo di molte storie raccontate attraverso gli archivi, i teschi dei pazienti studiati dai medici, attraverso i segni sulle pareti e iniziative come queste che cercano gratuitamente di non far dimenticare una storia non così antica.

 In conclusione, cosa avevano in comune le realtà del passato presentate all’inizio?

 L’isolazione, l’emarginazione, il maltrattamento, la mancanza di una vera e propria voglia di aggiustare quei malati. Forse per questo si può dire che era la società ad essere veramente malata. Ma sembra guarire. Ci abbiamo messo troppo tempo, ma non è creando un ambiente disagiato che si curano i disagi, come non è utile un carcere che non riabilita. Sono entrambe prigioni della società. Perché come il ladro emerge da una situazione di degrado, così il “pazzo” emerge in una società malata. Il depresso, l’isterica, il ribelle, il diverso venivano internati per liberarsi di un peso, ma la società stessa li aveva formati. Non erano malattie incurabili, ingestibili, e spesso non erano neanche malattie. Ma come si suol dire, andando con lo zoppo.. E quindi persone con una percezione diversa della realtà, la semplice ragazza libertina, finivano per essere mostri perché trattati come tali.

WP_20160506_16_04_49_ProOggi, come gli egizi più di cinquemila anni fa, dovremmo riscoprire qualcosa che spesso dimentichiamo e che ribadiamo sbagliando ogni volta che diciamo a quel conoscente, a quell’amico o familiare, “dai su, che passa” come dipendesse realmente dalla sola volontà. Il volerlo aiuta, ma nella stessa misura in cui desiderare che un polso rotto possa guarire per nostro volere. Bisogna dunque capire che esistono diversi tipi di disturbi, che possono colpire tutti, che esistono diversi metodi per trattare questi fenomeni e il primo passo è conoscerli. Iniziative come queste servono ad immergerci nell’ambiente che ha visto la disumanità e dovrebbe all’opposto risvegliare la nostra così da spingerci verso una consapevolezza maggiore che non deve esaurirsi in questo, ma esplicarsi nell’aiuto attivo di sé stessi e di chi non sa aiutarsi.

 Può sembrare un’invettiva contro il passato, ma preferisco vederla come uno sprone a migliorare la situazione di chi non ci riesce da solo. Ogni era si accorge delle storture di quella precedente, e come oggi ci vergogniamo di pratiche al limite, spesso oltre, della brutalità, in futuro i nostri nipoti si vergogneranno di noi. Si chiama progresso.

 “Se Dio avesse voluto che l’uomo indietreggiasse, gli avrebbe messo un occhio dietro la testa”.

 Ps: per deformazione “professionale”, consiglio il film del 2008 “Si può fare” di Giulio Manfredonia.

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