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Nella bocca della tigre: “Darkest hour”

Non è raro che i film storici siano dettati da un’esigenza particolare, che va al di là di un intento puramente didascalico o divulgativo. È questa, secondo me, la chiave di lettura principale da usare nella valutazione complessiva di un film come L’ora più buia (Darkest Hour, 2017) di Joe Wright, che appartiene al genere: ossia soppesarne l’attualità, la spendibilità nel contesto odierno, la carica provocatoria e stimolante. Forse le coordinate storiche in cui quest’opera si situa possono aiutarci a chiarire meglio la questione.

Quest’opera è, sostanzialmente, un biopic (un film autobiografico) su Winston Chruchill; più segnatamente, descrive il breve periodo che va dalla sua nomina a primo ministro nel maggio del 1940 fino alla ritirata di Dunkerque, avvenuta poche settimane dopo (in questo senso, l’opera sembra quasi complementare al Dunkirk di Nolan). Nel mezzo, si situano una serie di eventi e, soprattutto, problematiche, che ci portano a scoprire non solo la statura politica, esterna, del Churchill “personaggio”, ma anche a sondare la sua interiorità di “persona”.

In questo senso, si può tranquillamente affermare che il film ruota intorno ad un unico perno, ossia l’interpretazione di Gary Oldman nei panni di Chruchill. Non scopriamo di certo oggi la duttilità e la bravura dell’attore inglese, che porta a termine con questo film un lavoro imponente, rischioso, impegnativo: si parla infatti di mesi di ricerche accurate, più di duecento ore complessive di trucco e di quattrocento sigari fumati dallo stesso Oldman. Con, appunto, il rischio di risultare caricaturale, esagerato, inadatto per la differenza di età fra il personaggio storico e l’attore, oppure assolutamente anonimo; penso che, al contrario, quella parte del senso del film consistente nel far rivivere una personalità, si sia salvata. Naturalmente, il giudizio di chi come me l’ha visto in lingua italiana, incorre in un grande handicap: la mancata esperienza della vera voce, dell’inflessione, del tono, l’impossibilità, insomma, di apprezzare la totalità di un’interpretazione (che, bisogna pur sempre ricordarlo, non è fatta solo di voce, ma di un insieme di categorie drammatiche che investono anche la fisicità, ad esempio). Come avrete capito, ci troviamo quindi di fronte a un film molto teatrale, girato in maniera sobria e composta, che lascia ampio spazio alla narrazione se non alla verbosità.

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È interessante notare come, accanto agli elementi reali, ai fatti ricostruiti con perizia, si affianchi almeno una scena di finzione, un siparietto dal sapore patriottico che ci dice molto sul senso complessivo del film. Abbiamo parlato del senso biografico dell’opera, che è poi il dilemma interiore vissuto da Churchill quando si trova davanti la scelta fra il negoziato coi nazisti o la resistenza a oltranza, anche a costo di un’invasione. Legato a doppio filo, vi è il senso politico di cui ho parlato all’inizio; l’orgoglio millenario di un impero e del suo popolo, l’idealizzazione patriottica di una tradizione di libertà contrapposta alla tirannia dispotica di Hitler. D’altro canto, nelle parole di coloro che avrebbero voluto imboccare la via del negoziato, si può leggere una volontà di pacificazione e stabilità, di assestamento e contenimento, una prudenza che, al giorno d’oggi, sembra essere la via più privilegiata (e non a torto) nei contesti di politica internazionale. In questo modo risulta ancora più evidente il coraggio di Churchill nel voler portare avanti la battaglia contro il nazismo, assumendosi la responsabilità delle decisioni rischiose e delle vittime, in nome, alla fine, di un ideale.

In conclusione, se dovessi individuare l’elemento più azzeccato del film, per cui varrebbe la pena concedergli almeno una visione, sarebbe proprio la dimostrazione della forza dell’ideale; in un certo senso della possibilità di un fanatismo “buono”, che si fa forte della stessa coerenza utilizzata dal Male per perseguire tuttavia scopi opposti.

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