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MOSCA, 7 OTTOBRE 2006

IL RACCONTO PRIMO CLASSIFICATO AL CONCORSO LETTERARIO DI INCHIOSTRO “QUELLO CHE NON HO”

di Carlotta Vacchelli

Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,

quelli che restano muti: letame,

chiodo per il vostro orlo di seta!

(Marina Ivanovna Cvetaeva, I poeti)

 

Il passo leggero e sicuro, pesanti sporte ondeggiano ai lati, scricchiola sull’asfalto del marciapiede.

In strada bambini scalpitano, nel tentativo di divincolarsi dalla stretta presa di madri nervose. Nonne risolute sbadigliano e spingono passeggini, ancheggiando lente nel terso sabato pomeriggio di un ottobre moscovita. I turisti sostano davanti all’eterna maestosità dei monumenti, nei viali affollati del centro città. I palazzi si stagliano imponenti e sontuosi sulla piazza e il vento profuma dei colorati dolciumi esposti nelle bancarelle. Di fiabe davanti a camini accesi, di festa.

Quarantotto anni è un’età dolce quando si hanno nipotini, riflette Anna lungo tragitto verso casa. È un’età dolce quando la tempesta, ormai, è lontana.

Proibito dimenticare il candore di quelle iridi perdute nello sgomento, in balia del terrore. Ogni dettaglio dei loro volti la perseguita. La fissano sperduti, mentre imbocca pappe in scatola ai figli di Vera, la seguono muti dalla finestra mentre esce di casa, scrutano i movimenti delle sue dita mentre batte a computer articoli, inchieste sulle loro urla, sul loro sangue e sugli aridi silenzi di chi, da sempre, se ne sciacqua le mani. L’orrore è un fiele torbido che ti scava nel midollo, è il gelo che ti ottura i polmoni, che ti inchioda il cuore: tremi, ma in realtà il caldo è insopportabile perché tu e altre mille paia di occhi uguali ai tuoi siete stipati nella palestra di una scuola pubblica. O immersi nel gas nervino dentro il salone di un teatro alla periferia di Mosca.

Basta.

È un tranquillo sabato pomeriggio e Anna non ha il potere di cancellare quello che è stato. A casa i bambini l’aspettano, pulcini in un nido ovattato che lei vizia e ama dell’antico, congenito amore di nonna. Mentalmente, ripassa le voci della spesa: sapone neutro; pannolini; omogeneizzati; latte.

Latte… Da quel primo di settembre, Anna suda freddo all’idea del latte. È il seno di una giovane donna, quello che prende forme morbide nelle sue pupille, quando legge ‘latte’ sulle confezioni nei supermercati. Ed è una donna bellissima, la sua pelle riluce d’avorio, come quella di tutte le mamme russe quando allattano i loro pupi biondi e paffuti. La sua storia, però, è diversa, e il suo cuore è ancora più grande e più puro dei suoi seni gonfi. Nella palestra i suoi alunni non sanno cosa accade nel buio, quelle chiazze grumose sulle casacche rosa e azzurre sono marmellata di lamponi, l’ha detto lei, la maestra. Un bambino non dovrebbe mai scoprire che aspetto ha la carne maciullata del suo compagno di scuola, ‘nitroglicerina’ è una parola difficile, meglio lasciarla in bocca ad attori corpulenti e femmes fatales, sul maxi-schermo.

Ma questa nitroglicerina a un certo punto esplode: la decisione l’ha presa un signore alto, con un fucile, un copricapo strano e la barba lunga. Tuona contro tutti ordini furiosi e agita una specie di telecomando: questo sembra spaventare un poco i suoi ‘fratelli’, bambini anche loro, ma cresciuti tra rovi e bombe artigianali. Il pretesto è l’estremo atto di coraggio di una maestra generosa, che ha cercato di sedare, con il proprio latte, un millesimo della sete di mille angeli scaraventati in un abisso raccapricciante.

Quella sete, per loro, è merce di scambio.

Il contraente è il corpo di militari. Uomini di valore, impavidi, energici. Nessuno scrupolo a sparare, l’importante non è il bersaglio, ma l’impressione sul nemico. Fare fuoco sui civili, ragazzini di dieci anni e giovani maestrine, non è poi un gran problema, quel che conta è obbedire agli ordini.

Anna da tempo non ha più i seni gonfi di latte, ma ha un cuore ugualmente grande, una tempra d’acciaio e la prudenza di raccontare tutto. Ascolta, come ha sempre fatto, il lamento del sopravvissuto: non si scompone. Ma dentro muore, perché quel settembre, in volo verso Beslan, un tè dal sapore anomalo le ha negato la possibilità di intervenire per mediare con i terroristi. All’ospedale, qualcuno ha detto veleno, ma il referto si è accidentalmente perduto tra varie carte. Nessun testimone: caso chiuso. Pazienza.

Anna ignora il dolore e non si dà pace, ma è stanca. Non impaurita, non scoraggiata. Stanca. È una giornalista, non un giudice, né un magistrato: racconta i fatti, così come sono. Ma i fatti, in Russia, sono parole pericolose, perciò i giornali ora puntano il dito: Politkowskaja pazza, schizofrenica, paranoica. Le minacce sono routine, scomoda ogni sua pubblicazione: “perché hai detto cose false?” “come hai avuto queste informazioni?”.

O sei per le verità preconfezionate, per il silenzio ben retribuito, o sei contro la Russia. E se sei contro la Russia, la carriera di giornalista non è adatta a te: vattene altrove. L’integrità è una virtù importuna, il disgusto per la crudeltà è un’occasione per scatenarla. Anna lo sa, e rischia, incurante delle diffamazioni, delle losche ombre che avverte a ogni passo: da venti anni arriva dove gli altri si bloccano, apre porte che qualcuno ha blindato, in nome di un Paese che le volta le spalle.

Questo sabato sera, però, Anna vuole adeguarsi: seguirà i consigli di Vera, che desidera che i suoi figli conoscano le premure di una nonna attenta. Per qualche ora non vuole pensare se non alle fiabe, al camino, alla festa. L’ultima inchiesta sulla Cecenia è pronta, i fascicoli ben impilati sulla scrivania, il dovere, come sempre, svolto con la dedizione di chi, le mani, se le sporca.

Cerca le chiavi dietro le grandi lenti tonde, i passi echeggiano nell’atrio silenzioso. Un giocattolo di gomma trilla buffo, quando appoggia per terra i sacchi della spesa. Aspetta l’ascensore, pregustando l’inattesa fortuna di questo pomeriggio di tenerezza, e la sua bocca si apre in un sorriso luminoso. La porta scorre.

Una sagoma nera, un volto senza occhi. Il soffitto precipita.

Sapore di sangue, schizzi rossi sullo specchio.

Una canna fumante e l’odore penetrante della polvere da sparo.

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