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“Morte accidentale di un anarchico”, ovvero: del saper ridere anche in faccia alle ingiustizie

È il 1970. Nemmeno un anno dopo la strage di Piazza Fontana e il defenestramento dell’anarchico Pinelli dal palazzo della Questura di Milano, Dario Fo è in tournée in giro per la penisola con uno spettacolo ancora non del tutto scritto, ma già più volte rappresentato, sul tema. Con la sua compagnia La Comune e spinto da diversi compagni di militanza, il regista lombardo ha infatti iniziato a rappresentare una commedia che ha per canovaccio i dossier delle indagini condotte dalla Questura di Milano nei confronti dell’anarchico Giuseppe Pinelli, dapprima sospettato della strage milanese e successivamente misteriosamente precipitato dal terzo piano dell’edificio durante la pausa di un interrogatorio. Le indagini si vanno delineando in quegli anni, e così anche la commedia di Fo, che cambia spesso testo o parti della vicenda. E già qui è riscontrabile la portata innovatrice del teatro militante di Fo: come un Goldoni contemporaneo, egli abbozza un intreccio conosciuto se non vissuto dallo spettatore, ma lo arricchisce – siamo negli Anni ’70 – di una forte carica di denuncia sociale, ben celata dietro uno spiccato tono ironico.

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Siamo in una Questura, un individuo è interrogato dal commissario Bertozzo per millantata identità. Si scopre presto che egli altri non è che un matto, sofferente di una fantasiosa ma certificata “istriomania”, e quindi potenzialmente inaccusabile. Attraverso la sua capacità di cambiare atteggiamento e giocare con le parole (viene fuori fin dall’inizio e per tutta la durata dell’opera tutta la completezza attoriale di Fo), il matto riesce a farsi cacciare dal commissario. Avendo però dimenticato i suoi documenti, fa per tornare nell’ufficio del funzionario, ma trovandolo vuoto ne approfitta e, oltre a distruggere la propria denuncia, rovistando tra i diversi documenti viene a sapere che in Questura è attesa la visita di un giudice, chiamato a svolgere un’indagine interna per stabilire le effettive responsabilità della morte di un anarchico, precipitato poco tempo prima dalla finestra dell’ufficio del questore, al terzo piano del palazzo (chiarissimo riferimento, seppure mai esplicitato, a Pinelli, così come le caratterizzazioni del questore e del commissario sportivo, che rimandano per allusioni proprio a Luigi Calabresi e Marcello Guida, funzionari di polizia ex-fascisti subito sospettati dai canali della sinistra extra-parlamentare come colpevoli della morte dell’anarchico). L’occasione è perfetta: si fingerà giudice per soddisfare a pieno le sue tendenze istrioniche. Il gioco funziona per un po’, fino al ritorno in scena del commissario Bertozzo che, alla presenza di una giornalista (e non potendo quindi mettere in difficoltà i suoi superiori), scatena un’incredibile commedia degli equivoci, dove, in una farsa per climax ascendente, dapprima vengono smascherate tutte le contraddizioni dell’indagine ufficiale, successivamente viene proposta una soluzione al dramma sociale della disinformazione.

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Impegno civile a parte, figlio del suo tempo anche se ancora molto attuale, l’opera si caratterizza per un testo brillante ed efficace, trasposto egregiamente da Dario Fo in primis, seguito da Claudio Bisio, Renato Carpentieri, Secondo De Giorgi, che confermano un’eccellente prova attoriale.

La Commedia militante, genere di cui Fo è sicuramente l’ideatore, si pone qui come un’opera pop – nel senso di popular – di quegli anni, che in mezzo a tanta violenza riesce a guardare con intelligenza e con un sorriso anche alle pagine più nere della storia italiana recente, per stimolare una riflessione che travalica i fatti narrati, per convincere il pubblico di ieri come di oggi che, se fatto con sagacia, si può ridere davvero di tutto, anche dell’ingiustizia.

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