Sport

Morire alla luce per non vedere il buio

di Simone Lo Giudice

 

“Spero che il Gesù che amo mi accolga: grazie a lui troverò la pace!”: l’augurio che Justin Fashanu rivolge a sé stesso prima d’intraprendere il suo ultimo viaggio. Su quel biglietto d’addio sono impresse le sue sofferenze terrene, proprio quelle che lo hanno obbligato a congedarsi dal mondo pur di assecondare il volere della gente. Perché Justin è un’anima deviata, che ripudia la normalità per abbracciare la diversità. Ma occhio ai punti di vista, giudici spietati di realtà mutevoli: perché, solo se varchi quel labile confine, puoi intuire la relatività di qualsiasi certezza. 19 Febbraio 1961: Londra ha appena dato il buongiorno alla vita del piccolo Justinus Soni Fashanu, origini nigeriane e famiglia in disordine.
I suoi genitori tramano il divorzio, senza remore verso Justin e John, fratelli in balia del destino e presto spediti in una casa-alloggio a Barnados. Laggiù diventano grandi in fretta, ammirano la solidità delle famiglie altrui, vivono la propria smisurata e deviante libertà. Per fortuna che c’è il calcio, almeno per l’attaccante Justin: nel 1979 debutta nel calcio professionistico con il Norwich City, nel 1981 diventa il primo giocatore di colore britannico da un milione di sterline (una volta trasferitosi al Nottingham Forest di Brian Clough). La sua vita assapora il piacere della discesa prima d’inciampare su quel ciottolo privato, legato all’orientamento sessuale. L’allenatore Clough trova inaccettabile che Fashanu sia “un fottuto finocchio” frequentatore di locali notturni gay.
In un attimo Brian promuove titolare la vita privata, relegando in panchina il talento sportivo. Come se sul verde non fossimo tutti uguali, dediti a rispettare gli stessi doveri e a godere degli stessi diritti. Ci sarebbe anche un infortunio al ginocchio a sgambettare la carriera del respinto Justin, ma la momentanea indisponibilità del corpo non graffia mai quanto l’eterno dolore dell’anima. Eppure Justin ostenta il coraggio del vero mediano, quel ruolo sospeso tra la scommessa di attaccare e la certezza di difendersi: nel 1990 Fashanu è il primo giocatore professionista a dichiararsi pubblicamente gay. Una rivelazione in contropiede, destinata a spegnersi sull’ostilità del mondo circostante: da quello calcistico a quello della comunità nera britannica, fino alla disapprovazione del fratello minore John.
Le reazioni omofobe falciano l’anima di Justin, sperduta nella selva delle spietate consuetudini. L’autunno 1995 porta consiglio: voglia di cambiare aria, dall’Europa agli Stati Uniti per rinascere come atleta, ma soprattutto come uomo. La quiete prima della tempesta, che arriverà nella primavera 1998: un diciassettenne del Maryland dichiara alla polizia di essersi svegliato nel letto di Justin Fashanu (dopo una serata trascorsa insieme), colpevole di averlo narcotizzato (prima) con l’obiettivo di violentarlo (poi). Accuse infamanti che fanno a pugni con l’altra ammissione dello stesso giovane, recatosi a casa Fashanu di sua spontanea volontà.
Per Justin è l’ultimo atto in attesa dell’epilogo: l’uomo ritorna in Inghilterra con l’obiettivo di organizzare una difesa all’altezza dell’accusa. Ma “sostegno” fa rima solamente con “indegno”, attributo che la comunità inglese intende riferire allo svergognato Fashanu. 3 Maggio 1998 in un garage londinese: non resta che scrivere quel biglietto d’addio prima di avvolgere una fune attorno al collo: “Non ho mai stuprato quel giovane. Abbiamo avuto un rapporto basato sul consenso reciproco. La mattina seguente, lui mi ha chiesto denaro. Quando io ho rifiutato, il giovane mi ha minacciato, dicendo che me la avrebbe fatta pagare!”.
Quel diciassettenne rifilò sul volto di Justin solo l’ultimo schiaffo, la goccia che fece straripare il pianto di un uomo eternamente processato dalla gente. Colpa di una società soffocata dal pregiudizio, colpa di una comunità che scarica la sua natura malata sulle minoranze coraggiose, sui tanti Fashanu che decidono di non celare sé stessi. Perché è meglio morire alla luce che vivere al buio.

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