Ogni anima si ammaestra con la carne: misticismo e carnalità nella poesia di Marguerite Yourcenar

L’8 giugno ricorre il ricordo della nascita di Marguerite Yourcenar (1903-1987), scrittrice conosciuta soprattutto per il suo capolavoro Memorie di Adriano e per essere stata la prima donna ammessa all’Académie française. La poesia e l’amore, tormentato e infelice, ebbero un ruolo così radicale nella vita della Yourcenar, da coincidere indissolubilmente con essa stessa. Esordì a sue spese nel ’21e nel ’22 proprio con due raccolte poetiche, Le jardin des chimères e Les dieux ne sont pas morts, e la sentenziosità tipica della poesia rimarrà un tratto caratteristico di tutte le sue prose, definibili prose–liriche per l’appunto. Questa compresenza rispecchia la coesistenza nella scrittrice e nelle sue opere di una duplice tensione, irrisolta, verso la carnalità e il misticismo.

Non esiste un amore infelice: non si possiede se non ciò che non si possiede.

Non esiste un amore felice: ciò che si possiede, non lo si possiede più.

Marguerite-Yourcenar-bambina
Marguerite attorno ai 14 anni

Amore edonistico e amore impossibile: questa insistente ossessione è riscontrabile anche nel suo rapporto con l’omosessualità. Marguerite, traduttrice francese della Woolf e di Kavafis, è sempre stata colpita dagli uomini che amano gli uomini e proprio uno di questi, Alexis de Géra, le diede nel ’23 la prima delusione amorosa, influenzando la sua prima opera pubblicata da una casa editrice: Alexis o il trattato della lotta vana (1929), una lettera apologetica di coming out rivolta da un uomo a sua moglie. «Feci la mia scelta. Mi condannai, a vent’anni, all’assoluta solitudine dei sensi e del cuore». L’omosessualità, profondamente compresa dalla scrittrice e vissuta sulla propria pelle e su quella di alcuni familiari, la induce a risolvere così, rinnegandolo, il dissidio tra l’esuberanza della passionalità giovanile e l’impossibilità a sperimentarla. Ma questo tormento è implacabile:

«Prima, il corpo non ci serviva che a vivere. Ora sentiamo che ha la sua esistenza particolare, i suoi sogni, la sua volontà, e che fino alla morte dovremo tener conto di lui, cedere, transigere o lottare. Sentiamo, crediamo di sentire, che l’anima è solo il suo sogno migliore. […] che cosa avessi in comune col mio corpo, con i suoi piaceri o i suoi mali, come se non gli appartenessi. Ma gli appartengo, amica mia. Questo corpo, che sembra così fragile, è tuttavia più resistente delle mie decisioni virtuose, forse persino della mia anima, dacché l’anima muore sovente prima di lui. […] Tu credi l’anima immortale, perdonami di essere meno sicuro di te o di avere meno orgoglio; sovente l’anima non mi sembra che un semplice respiro del corpo».

I temi trattati in Alexis permangono in altri scritti, soprattutto poesie che verranno pubblicate nel ’56, I doni di Alcippe, o in meditazioni, come Sistina, raccolte in Il tempo grande scultore. Il dissidio yourcenariano coinvolge anche il tempo, il tempo che scorre e che non cambia mai, il respiro dell’immortalità eterna e dei secoli che sovrastano tutto. Di quale tempo si sente figlia? Di tutti e di niente. Non crede al tempo, nemmeno che le epoche della storia determinino le persone. Questa ciclicità mista all’atemporalità fa da sfondo alla poesia Endimione, sempre del ‘27-‘28, in cui la Yourcenar rivela il dolore di amare a 24 anni, rivela un amore passionale e tuttavia platonico come quello del mito tra la Luna e un fanciullo: «L’altro è il nemico e io lo straniero». Si esiste solo attraverso lo sguardo dell’altro, forse perché con i primi amori si comincia a esistere, si impara a vivere, conoscendo se stessi e la sofferenza. «Si amavano o almeno lo avevano creduto». Tutto è intriso di pessimismo. «Ho smesso di sperare, di inseguire o di abbracciare / non sono che un oblio respirante e cullato».

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Copertina di Fuochi

Nel ‘30 incontra André Fraigneau, «il viso di un dio su un corpo di efebo», venticinquenne, un omosessuale non abbastanza ricambiato dagli uomini che si vendica con le donne. Sarà il protagonista di quello che nel ’35-’36, e definitivamente nel ’57, verrà intitolato Fuochi. André si interessa solo dell’intelligenza di lei, lei del corpo di lui. Marguerite ha la seconda occasione di essere amata da un uomo che ama gli uomini, ma questi la porta nei locali gay parigini, alle serate dissolute, pur senza riuscire a trattenerle il desiderio: «Quando ti rivedo, tutto diventa limpido. Accetto di soffrire». Sa benissimo che non sarà mai amata carnalmente da quest’uomo egoista, da questo spirituale che non ha più un’anima o non l’ha mai avuta, forse è per questo che lo ama: «Un dio vuole che io viva e ti ha ordinato di non amarmi più. Non sopporto la felicità. Mancanza di abitudine. Nelle tue braccia non potevo che morire». Probabilmente, per Fraigneau arriva fino a tentare il suicidio nel ’35. Lo definisce «L’uomo che ho amato più di Dio». La pubblicazione delle prose–liriche di Fuochi appare come una vendetta forse finalizzata a farlo pentire del suo rifiuto amoroso: «L’oscuro ritorno su sé stesso dell’uomo che è stato spietato e comincia a sapere che cosa significhi soffrire». Nell’opera s’immedesima in una moderna Saffo, una rifiutata, una suicida fallita; si rispecchia nel conflitto Fedra/Arianna, due facce della stessa medaglia, come lo sono carne e spirito; si immagina come una Clitennestra omicida, un’amante tradita e abbandonata; si sente una Maria Maddalena, pronta a inseguirlo nel fango dell’infelicità, persuasa della banalità della felicità. «L’amore è un castigo: veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli». Al centro dell’opera c’è questa concezione di amore totale, che si impone alla vittima come malattia e insieme come vocazione.

«Le tue mani aperte, incapaci di dare o di prendere una gioia qualsivoglia, mi avrebbero lasciata cadere come una bambola rotta. Io bacio, all’altezza del polso, quelle mani indifferenti che la tua volontà non scosta più dalle mie; accarezzo l’arteria azzurra, quella colonna di sangue che un tempo sorgeva incessante come lo zampillo di una fontana dal suolo del tuo cuore. Con brevi singhiozzi soddisfatti io abbandono il capo come nell’infanzia fra quelle palme piene di stelle, di croci, di precipizi di ciò che fu il mio destino».

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Marguerite nel 1968, fotografia di C. Taillandier

L’amore è sempre additato come puro scandalo, magari anche per la natura omoerotica o per l’attrazione morbosa verso gli omosessuali, una vergogna inconfessabile, e si fa al contempo mistico, trascendente e metafisico: «Sopporto le tue mancanze. Ci si rassegna alle mancanze di Dio. Sopporto la tua mancanza. Ci si rassegna in mancanza di Dio. […] Se perdo tutto, mi resta Dio. Se smarrisco Dio, ti ritrovo. Non si può avere insieme la notte immensa e il sole». Al di là della sublimazione, della glorificazione di un passato morto, nel tentativo di esorcizzarlo, è persistente il dissidio che talvolta tenta di essere risolto nell’idolatria e nell’ossessione carnale: «Un cuore, una cosa piuttosto sudicia. di competenza della tavola anatomica e della vetrina del macellaio. Preferisco il tuo corpo». Apparentemente sembrerebbe che solo la sofferenza sia degna di essere vissuta, che il vivente sia colui che viva senza sosta l’esperienza del dolore: «Come sarebbe stato scialbo essere felici!». Non è così, si tratta piuttosto di un’universalizzazione del dolore e di un amore che, benché lancinante, è un bell’incidente, un rito di passaggio, un’iniziazione violenta, meno reale di altre scelte che l’hanno preceduto e che dureranno dopo di lui. Premonizioni intraviste troppo presto, ritrovate e autenticate nel corso di tutta una vita. Tappe di una presa di coscienza in fieri. L’addio definitivo di Marguerite Yourcenar a Fraigneau risale alla poesia del ’36 Ton nom:

«Il tuo nome che da tua madre ti è stato dato, / il tuo nome che sotto ogni cielo ho gridato e in tutti letti ho pianto; / il tuo nome che leggo in filigrana a tutte le pagine della mia infelicità / il tuo nome che mi martirizza la bocca […] / il tuo nome che io piagnucolo come una mendicante che continuerebbe le sue lagne alle porte di una città in fiamme, / il tuo nome sul quale si sono posate come mosche tante dicerie infami; / il tuo nome che la gente pronuncia come fosse quello del primo venuto; […] / il tuo nome, che è con il ricordo di te la sola cosa che tu non possa portarmi via, / poiché non importa chi può pronunciarlo sotto il cielo azzurro; il tuo nome, di cui ogni lettera è uno dei chiodi della mia passione; il tuo nome, il solo di cui mi ricorderò il mattino della Resurrezione».

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Marguerite e Grace

Infatti, già due anni più tardi, nel ’37, incontra Grace Frick, per cui nutrirà un amore completamente diverso, descritto nella non–dedica di Memorie di Adriano: Marguerite voleva cancellare se stessa dall’opera, ecco perché spiega che non vi è nessuna dedica, ma se mai vi fosse stata, avrebbe dovuto esserlo per Grace. Questa viene dipinta come una figura in disparte, quindi non centrale e totalizzante, che sostiene le sue debolezze e stanchezze, incoraggia e conforta, collabora e crede negli stessi progetti e sogni, approva o contraddice, condivide come fossero proprie le gioie dell’arte e della vita, senza essere ombra o riflesso o complemento, ma ha una propria natura che è altro, concedendo libertà a Marguerite ma costringendola a essere pienamente ciò che è. Questo rapporto viene definito «Hospes comesque». E come “ospiti e compagne” hanno vissuto per il resto dei loro giorni. Ma un anno prima della morte di Grace, nel ’78 Marguerite conosce Jerry Wilson, ventottenne, una creatura fresca e dolce come Antinoo. La biografa della Yourcenar, Michèle Goslar, in occasione dell’innamoramento per Jerry ricorda che «lei non ha mai preso in considerazione l’età o il sesso, quando si trattava di amare», e questo lo si era già ben compreso, perciò che fosse l’amore per un amante, un figlio, un fratello, quello per Jerry fu l’ultimo intenso e importante e l’accompagnò, oltre che in viaggi per tutto il mondo, fino alla morte. Tuttavia, dopo diversi tentativi di suicidio, Jerry muore di AIDS nel ‘86. E il suicidio, proprio per la sua natura tormentata, capace di coinvolgere abissalmente corpo e anima, l’ha sempre ossessionata. Si pensi, nelle sue opere, a Mishima, Antinoo, Zenone, Saffo.

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Marguerite mentre legge il Panegirico a Stilicone di Claudiano, fotografia di Y. Karsh, 1987

Infine, il 17 dicembre del 1987 anche Marguerite, dopo aver visto inerme andarsene dalla sua vita tutte le persone che aveva amato come le accadeva da piccola coi castelli di sabbia faticosamente costruiti e che il Mare del Nord si portava via inesorabile, «apre completamente gli occhi e non li richiude più». Grace e Marguerite sono sepolte vicine in quell’isola che le ospitò per una vita, Mount Desert, accanto a loro c’è anche la tomba di Jerry Wilson.

Federico Corradi

Federico Corradi è nato a Brescia il 6 gennaio 1999, è cresciuto a Palazzolo sull'Oglio, dove ha conseguito la maturità scientifica. Attualmente studia Lettere Classiche presso l'Università di Pavia.

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