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Matematica mortale: “Copenhagen” al Teatro Fraschini

Approdato al nostro pavesissimo Teatro Fraschini dopo aver peregrinato con successo per la penisola, Copenhagen è la storia di tre facce note: ai liceali come ai professionisti del settore scientifico pavese esiliati tra le nebbie della Nave, del Cravino, della Melanzana (no, non quella melanzana) e di tutti gli altri edifici dalle sembianze intimidenti e dall’onomastica fuorviante.

È la storia di due prodigi della fisica, il danese Niels Bohr e il tedesco Karl Werner Heisenberg (no, non quell’Heisenberg), le cui magistrali interpretazioni sono affidate rispettivamente a Umberto Orsini e Massimo Popolizio; alla dinamica coppia di scienziati, mai sprovvista di un biglietto per l’iperuranio delle sue teorizzazioni, si affianca poi una bravissima Giuliana Lojodice nel ruolo della signora Margrethe Bohr, severo e inflessibile aggancio alla realtà desolante della Seconda Guerra Mondiale.

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È nella capitale danese omonima al titolo che i due Premi Nobel, amici di lunga data, si incontrano nel 1941, allontanandosi dalla coniuge Bohr in una delle loro lunghe e verbose passeggiate. Ed è proprio al termine della camminata “scientifica”, dopo una discussione i cui contenuti sono stati sottratti alla Storia, che le strade di Bohr e Heisenberg si separano bruscamente. Il tedesco collaborazionista e l’ebreo danese si salutano su note dolenti, mentre sul loro incontro aleggia l’interrogativo: cosa si saranno detti?

È a questo Sacro Graal del mondo scientifico che il testo dell’inglese Michael Frayn, rianimato per i nostri palcoscenici da Mauro Avogadro, tenta di dare risposta. E le premesse di tale indagine sono trasparenti quanto bizzarre: i protagonisti della vicenda, a distanza di anni dalla loro dipartita, si scoprono di nuovo insieme in un ipotetico aldilà. Da tale ideale pretesto, i tre procedono a ricostruire quel minuscolo frammento della loro vita datato 1941, tentando di sottrarlo alla nebbia del tempo. Ciò che ne deriva è una narrazione frammentaria, una rammemorazione collettiva aperta all’incertezza, alla reticenza e all’errore. Le varie versioni dell’incontro si confrontano, si smentiscono, vengono rivissute, secondo uno stilema narrativo familiare all’universo cinematografico: ai Rashomon, ai Soliti sospetti, agli Hero. [1] E su tale indagine, giallo senza vittime e senza colpevoli, grava l’ombra del progetto atomico nazista: incompiuto deterrente contro i funghi americani che, eventualmente, sarebbero svettati su Hiroshima e Nagasaki.

Copenhagen-1Quella dello spettacolo non è, va detto, un’impalcatura scenica subito aperta all’empatia degli spettatori. La vicenda di Copenhagen inizialmente tituba a prendere il volo, è cullata con lentezza verso i suoi climax e i suoi momenti più pregnanti.

La resa visiva di simili condizioni narrative, d’altro canto, è impressionante. Tre interpreti abbigliati di grigio, mimetizzati su un fondale dello stesso colore: un maestoso sistema scenografico che pare incombere sul pubblico, che lo minaccia con gradinate inclinate e con opprimenti lavagne cosparse di numeri, formule, teoremi. Tempio perfetto dei temi dello spettacolo, portato in vita da proiezioni apocalittiche e sapienti effetti di luce che, nel continuo e curato grigiore delle sue forme – palcoscenico eletto della scienza come della documentazione storica – suggerisce la vicinanza tra la fisica e la minaccia atomica, tra la teoria più innocente e la più atroce messa in pratica della stessa.

L’unico elemento di colore, in tale monocromatico universo di metà Novecento, è quello attoriale: la grande, grandissima recitazione dei tre interpreti, che slittano abilmente dal misurato e solenne contegno di individui del secolo alla partecipazione, all’accoramento, a una serietà giocosa e auto-ironica. Costretti tra gli estremi di Storia e Scienza, i personaggi riescono comunque a ricavare una nicchia per il Sé. Per la propria dimensione psicologica, per personalità geniali e buffe, per dilemmi e abitudini che agli occhi della posterità sono diventati soltanto dati. E pure date: tante, martellanti e meccaniche; indici rigorosi e scientifici di quel dossier che nel 1941 ha il suo elemento cardine.

Se Copenhagen qua e là può risultare vittima del suo grigiore di fondo, del filologico attaccamento a fatti e luoghi rievocati come in una cronaca d’archivio, le vivaci pulsioni interne esercitate dai suoi magistrali interpreti e un impatto visivo al contempo rigoroso e sorprendente ne fanno uno spettacolo degno di essere visto. Specialmente per quanti, magari a fini accademici, si trovino ad accusare un marcato interesse per il lavoro di Heisenberg, per quello di Bohr o per la realizzazione di programmi atomici a fini bellici.

La mia simpatia va equamente a tutte e tre le categorie.

Ci permettiamo di indicare, per chiunque se la fosse persa a Pavia, la messa in scena prevista presso il Teatro Grassi di Milano (via Rovello 2, fermate Cordusio e Cairoli della M1 rossa) tra 3 e 22 aprile.

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[1] Rispettivamente pellicole di Akira Kurosawa del 1950, Bryan Singer del 1995 e Zhang Yimou del 2002.

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