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Marocco: viaggio alla scoperta della comunità berbera

Salah ha un volto simpatico e gentile, un sorriso luminoso, il classico savoir faire del venditore; quello che nel souq (il mercato) di Fes può fare la differenza tra uno che vende e uno che non attira mezzo cliente alla sua bancarella. Salah, di fatto, è un ristoratore a tutti gli effetti: lui e il cuoco del suo “fast food” (vale a dire un banchetto di carne esposto su una delle vie principali della medina, e letteralmente tre tavolini sistemati al coperto) preparano panini a 10 dirham, l’equivalente di un euro, e mentre portano avanti i loro affari non trascurano mai il cliente. A Salah piace parlare e si racconta volentieri. È affabile come tutti i marocchini, ma lo è in modo diverso, particolare, perché sa cosa vuol dire sentirsi escluso, non accettato. Salah è di origine berbera, come del resto un’enorme percentuale della popolazione del Marocco. Non vive a Fes da sempre e quando si è trasferito da bambino non è stato facile. Tutti mostravano diffidenza: lo discriminavano perché la sua famiglia era “gente delle tribù”. Salah non si vergogna di raccontarsi e di dire che all’inizio vivere a Fes non è stato semplice. Ma ora una cosa è certo di averla imparata: il mondo è una continua scoperta grazie alla sua varietà. Le persone sono diverse tra loro ed è per questo che vale la pena conoscersi e accettarsi per come si è facendo delle proprie differenze una ricchezza. Visionario, edulcorato, un po’ perbenista? Forse, ma quella conversazione fortuita nel bel mezzo di quel caotico mercato variopinto, avvolta dall’intenso odore delle spezie, di carne cotta alla piastra, di verdura da tajine, lasciava adito a tante riflessioni.

Medina di Fes. Foto di Claudia Agrestino

Imazighen, uomini liberi

I Berberi (nella loro lingua, “imazighen”, “uomini liberi”) sono le popolazioni autoctone (ndr originatesi e sviluppatesi nel territorio stesso) del Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia). Il Marocco è il paese che ne ospita di  più rispetto a tutti gli altri suoi vicini del Maghreb: qui i berberi vivono insieme alla popolazione araba producendo quel composto sociale meravigliosamente eterogeneo che caratterizza e rende unico il paese. Prima di proseguire con il racconto di chi siano questi particolari abitanti e perché sia importante parlare di loro, bisogna però chiarire un concetto importante. I Berberi, come li si definisce normalmente e per convenzione, non amano essere chiamati con questo nome: fu infatti coniato dai francesi che colonizzarono il Marocco dal 1912 al 1956. La parola berbère, storpiatura dell’arabo barbar, ovvero barbaro, possiede infatti una connotazione negativa. Con questa i colonizzatori definivano le popolazioni tribali locali praticando quella forte distinzione (e discriminazione) tra cittadini francesi residenti sul territorio e abitanti del posto che non avrebbero mai ottenuto gli stessi diritti dei coloni. Di conseguenza la parola in lingua tamazigh, cioè amazigh (plurale imazighen), “uomo libero” è di gran lunga preferibile anche alla luce dei recenti riconoscimenti fatti dal governo marocchino.

Berberi e arabi, cronache di una convivenza quasi perfetta

Se già nel periodo del Paleolitico si registrano tracce dell’esistenza della popolazione amazigh nell’area, è soprattutto attorno al III secolo a.C. che nomadi stanziatisi lungo la costa mediterranea fondarono i loro regni. Ma la vita delle popolazioni “libere” non fu mai priva di attacchi a quella libertà rivendicata da sempre: non vi furono infatti momenti della loro storia in cui, per una ragione o per l’altra, gli imazighen riuscirono a essere immuni alle dominazioni straniere. Da quella romana a quella francese, passando per quella che più di tutte apportò dei cambiamenti fondamentali alla configurazione sociale della regione: quella araba. Con il processo di islamizzazione iniziato nel 658 d.C. arabi e imazighen si trovarono a convivere nello stesso territorio, e ancora oggi il substrato comunitario si rallegra della coabitazione di questi due grandi gruppi sociali. Infatti, i berberi sono ovunque perché tanti marocchini hanno radici imazighen, se non dirette, almeno di seconda o terza generazione. Rimangono quindi i villaggi popolati dalle tribù berbere (le principali comunità sono Ait Atta, Aït Baamrane, Ait Yafelman, Ait Ouriaghel ), soprattutto nelle aree del Rif (la fascia costiera montuosa che si affaccia sul Mar Mediterraneo) e del Sahara, ma moltissimi vivono perfettamente integrati alla popolazione delle grandi città.

Sicuramente in tanti avranno sentito parlare della “perla blu” del Marocco, Chefchaouen, una cittadina sdraiata in una valle in pieno Rif, conosciuta per le sue architetture tipiche dipinte di azzurro e blu. I suoi abitanti sono in maggioranza amazigh, tant’è che passeggiando per le sue stradine non di rado si incontrano straordinari uomini e donne che indossano abiti e copricapi tipici della tradizione, colorati e indubbiamente eccentrici. Gentili anziane del luogo che su mento, fronte e guance mostrano fiere i loro tatuaggi rituali. Suggestivi scorci infilandosi nei quali si finisce avvolti da tappeti e tessuti berberi.

La città di Chefchaouen, la “perla blu” del Marocco. Foto di Claudia Agrestino

«Tutti in Marocco adorano le tradizioni berbere», racconta Makki, giovane professore di inglese in una scuola superiore di Ifrane (centro urbano del Nord definito “la Svizzera del Marocco”) e saltuariamente docente di arabo per stranieri a Fes. Suo padre è un amazigh e sua madre è araba e, malgrado il trasferimento in città fin da bambino e la perdita quasi totale della lingua tamazigh, è ancora fedele alle usanze della sua gente. «Non ho mai sperimentato discriminazioni sulla mia pelle, ho amici sia arabi che berberi e tutti vanno d’accordo. Le discriminazioni sono cose da gente incolta e rozza che non ha avuto la possibilità di studiare apprezzando il mix di culture che rendono speciale il nostro paese». Eppure, non è sempre stato così.

Lotte politiche e sociali tra discriminazione e autodeterminazione

Nel 2011, a seguito dell’ondata di proteste che ha coinvolto il Nord Africa e il Medioriente, le cosiddette “primavere arabe”, e grazie al lavoro di tanti attivisti, il governo marocchino ha revisionato la Costituzione. Per la prima volta ha riconosciuto in modo ufficiale l’esistenza della comunità amazigh e della sua lingua che ora può essere insegnata liberamente. Nonostante ciò, gli scontri tra le comunità berbere e il governo centrale ci sono sempre stati e proseguono. Bisogna ricordare che la dinastia regnante da generazioni, quella alawide, a cui appartiene anche l’attuale re Mohamed VI, è una delle poche famiglie interamente di origine araba. I berberi attribuiscono perciò a questa la causa delle tante ingiustizie subite. Leitmotiv delle diatribe è la disuguaglianza, soprattutto economica, causata da una distribuzione sbilanciata delle ricchezze. Questa pratica del potere centrale ha infatti provocato un forte aumento della povertà e della disoccupazione nell’area, oltre a mettere in luce i cattivi investimenti che hanno portato a potenziare l’apparato militare e burocratico dello Stato senza tener conto di ambiti come quello sanitario e dell’istruzione, abbandonati a loro stessi. La zona “di fuoco” per antonomasia è quella del Rif, dove il conflitto si è inasprito negli ultimi anni a seguito della morte nel 2016 del pescatore Mouchine Fikri. La polizia gli aveva sequestrato un carico di pesce che l’uomo aveva cercato di recuperare rimanendo ucciso in un compattatore per rifiuti. In quell’area, infatti, a ogni mossa del fronte di protesta berbero corrisponde una violenta risposta delle forze dell’ordine che ha provocato, negli anni, un’importante escalation di violenza. Anche se non sono riportati spesso dai media e il mondo non ne è troppo a conoscenza, nei territori che sono casa loro da sempre gli imazighen lottano per autodeterminarsi e ottenere diritti fondamentali. Ancora oggi.

Manifestazione amazigh a Rabat (20 marzo 2011). Foto dal blog “(r)umori dal Mediterraneo”

«Quando sono arrivato a Fes ho vissuto le mie ingiustizie – ribadisce Salah – ma ho fatto in modo di trasformarle in qualcosa di positivo per la mia persona. Ho la speranza che questo avvenga un giorno nel nostro paese».

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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