Attualità

Manifesto di una giovane Italia

di Giovanni Cervi Ciboldi

Lo chiamano “il mondo dei giovani”. Politici, preti, cantanti, opinionisti, ospiti, sedicenti esperti e sociologi del nulla.
Parlano di giovani, delle loro difficoltà, dei loro rapporti, dei loro problemi. Indossano una maschera commediante, falsamente analitica, solita di chi, superficialmente, dispone di sole banalità e loci communes. Di chi non si fa mai mancare il lieto fine per tranquillizzare il pubblico adulto.
Il “mondo dei giovani” lo chiamano. Ma che piaccia o no, il mondo è uno e soltanto uno: siamo tutti sulla stessa barca. Siamo solo i fruitori finali di un mondo creato da altri che, pensando a loro stessi, si sono purtroppo scordati di pensare anche a noi.
Parlano di “modelli”. Ma quali sono i modelli più risonanti? Quelli che siedono in parlamento incapaci di legiferare ma abili ad aggredirsi? Quelli analfabeti che cercano la celebrità televisiva per uscire dalla miseria economica ed umana? O sono – professione tutta italiana – i “faccendieri”, i modelli, in coda davanti ai tribunali?
Parlano di “valori”, ma ne declinano l’insegnamento alla scuola e alla famiglia. A quella scuola che hanno massacrato con tagli e riforme, a quella università che da fabbrica del pensiero è stata ridotta a fabbrica di esami. A quella famiglia che è costretta a scegliere con cura il momento in cui mettere al mondo un figlio, sempre più vecchia, sempre più in difficoltà.
Spiacente, ma è la società il contenitore dei suoi stessi valori. Famiglia e scuola devono solo essere mezzi di trasmissione.
E quali valori? Quelli creduti immutabili dal mondo arcaico? La legalità, forse, quella che ha ben presente chi trasforma gli ingressi dei tribunali in curve da stadio a sostegno o contro gli inquisiti? E’ forse la politica, guida e riflesso del paese, a esemplificarli, senza però sapere cosa sia la vergogna? Oppure è la chiesa, organo politico, che addestra a considerare l’obbedienza una virtù?
Famiglia e scuola possono anche impegnarsi all’infinito, ma troppe frange della società offrono valori diversi, spesso opposti.
Il lavoro, tra disoccupazione e precariato, è oramai considerato solo in funzione del consumo che genera e spesso privato di ogni possibilità nobilitante; mentre alla cultura è oramai negato ogni spazio vitale, e ai suoi adepti, oramai invisibili nei media, sono stati sostituiti questi sedicenti esperti.
Così, le radici culturali e i possibili stimoli sono soffocati ogni giorno, tra tagli e barriere, a favore del consumo con cui è stato barattato il futuro.
Eppure le risorse informative sono sempre di più e sempre più invadenti, ma manca tuttora l’educazione al loro uso e al loro vaglio, carenza che ne rende i benefici solo superficiali. Basta guardare alla rete, sorta di prodigio, di cui troppi ignorano il potenziale, di cui un gran numero di persone fa un utilizzo prettamente ludico.
Pure l’evasione è stata svuotata. Lo svago ha perso ogni spirito costruttivo: la musica di mainstream è diventata merce; il gusto non è più addestrato; il cinema offre sempre meno spunti di riflessione, e ancor meno di educazione; le librerie più frequentate vendono paccottiglia da televisione. Le altre arti sono sconosciute ai più.
Sbagliato generalizzare, ognuno ha la sua storia e la sua strada. Ma tutti abbiamo in comune una identità, che la si chiami nazionale o meno, che accomuna tutti e influenza le nostre prospettive, ma che sta perdendo il suo potere coesivo sulla società: e i primi a risentirne, come ovvio, sono proprio i giovani.
Solo il fatto che in Italia, una Italia che è ancora – retta solo dai suoi cittadini – una delle grandi potenze mondiali, culla della cultura europea, si assista da anni alla celebre “fuga di cervelli” mostra quanto la politica sia incapace di gestire il capitale umano del quale può disporre, e non abbia alcuna prospettiva futura.
C’è chi dice che “tutte queste situazioni sono sempre esistite”. Si, è vero, ma non è normale che esistano ancora in questa era dell’informazione che offre possibilità finora sconosciute.
Il regresso non è frutto delle nostre mancanze, o almeno, non solo. Ogni fenomeno sociale ha le basi in uno culturale. Ed è da tempo che ai giovani viene resa sempre più difficile la via del pensiero, utile a valorizzarsi ed essere valorizzati, in grado di costruire una coscienza di sè e di ciò che lo circonda.
Conviene tenere duro. Una leadership può permettersi di diventare autoritaria ed erodere il futuro comune solo quando il popolo che governa non è culturalmente preparato a tenerle testa. Così, per mantenere il consenso senza governare, si è nutrito un popolo di demagogia attraverso i potentati televisivi ed editoriali, lo si è svuotato di potere e lo si è reso, come direbbe un romantico, “filisteo”: una volta distrutto ogni suo spirito critico, questo accetterà di chiamare “crisi” una piena recessione; accetterà normalizzazione di Tangentopoli; il crollo del peso internazionale e del patrimonio artistico della nazione in cui vive; accetterà le criminogene imposizioni di una politica che – di ogni colore essa sia – nella sua agonia è incapace di provare vergogna; e tanto altro, troppo altro, tra cui un ridimensionamento della sovranità democratica con il venir meno del controllo popolare delle preferenze nel sistema elettorale.
Continuano a parlare di giovani, ma non sono mai i giovani a parlare. Parlano della gioventù come se, essendo un periodo transitorio, una volta terminato i problemi fossero risolti. In realtà sono appena iniziati.
Io so che ci sono tanti giovani che vedono e comprendono e che non si fanno travolgere da un malcostume che ne uccide ogni sogno. So che ci sono giovani che ancora riescono ad offrire al mondo se stessi e le loro idee. Giovani che non hanno colore, non hanno partito, sono liberi e vogliono restarlo.
E so che un giorno gli artigli che oggi si aggrappano alle poltrone si consumeranno, e saremo noi, quelli che hanno rifiutato le loro offerte, a riprenderci il mondo che ci è stato tolto.

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