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Ma in Iraq chi combatte?

[Photo credits: Reuters]

Se in Siria l’ISIS o DAESH è arrivato quando la guerra civile era già iniziata, in Iraq è invece cresciuto quando la guerra civile era già finita. Si è sviluppato nelle contraddizioni di una ricostruzione difficile e ulteriormente complicata da spaccature apparentemente irrimediabili. Ma se in Siria, proprio in virtù della guerra civile in atto, i fronti di combattenti da affrontare sono tanti, nell’Iraq ricostruito il nemico sarebbe rappresentato in teoria solo dall’esercito regolare e dai Peshmerga curdi della regione a governo autonomo. Ma in realtà lo stato in cui versa l’esercito è preoccupante, non garantisce una protezione effettiva; allo stesso tempo le lealtà tribali e le spaccature etniche e religiose presenti inibiscono in qualche modo il processo di creazione di un fronte popolare irregolare alla stregua dei “ribelli” siriani.

Se il 2003 è stato un anno di svolta nella storia dell’Iraq con l’invasione da parte dell’esercito americano, più o meno sostenuto dalla Coalizione Internazionale, il 2006 è stato l’anno del cambiamento della politica del paese. Si sono tenute infatti le prime elezioni democratiche, qualsiasi cosa questo voglia dire, garantite e sponsorizzate dagli stessi Stati Uniti. La vittoria è andata al Partito Da’ua (l’Appello) e a capo del governo è stato scelto il suo leader, Nouri al-Maliki. La svolta sta nel fatto che, per i quaranta anni precedenti, il dominio politico era stato in mano alla comunità sunnita, mentre con le elezioni il potere passò nelle mani della comunità sciita, di cui al-Maliki e il Da’ua sono esponenti e rappresentanti. Al-Maliki ha quindi dato vita ad un governo uniformemente sciita, sostituendo tutti i dirigenti e capi dell’esercito con membri non solo sciiti, ma anche esponenti della diaspora irachena, quelli cioè che erano stati costretti all’esilio dal regime di Hussein. Il neonato governo costituzionale doveva far fronte a due ulteriori problemi, oltre la forte divisione delle comunità religiose: da un lato, la concessione di una certa autonomia ai Curdi nel Nord, dall’altro la forte pressione che la persistenza delle lealtà di stampo tribale nelle zone di campagna poneva sulle strutture di governo.

L’effetto dell’esportazione della democrazia in questo quadro così diviso su base etnica e religiosa è stato un progressivo, ma generale, ricompattamento delle comunità e una radicalizzazione delle posizioni reciproche. Una situazione che ha favorito politiche che permettessero alla comunità sciita di vendicarsi degli anni precedenti, caratterizzati da discriminazioni e prevaricazione ad opera dei sunniti, senza porre alcuna attenzione alle politiche invece necessarie per la ripresa.

Esempio di questo riguarda proprio l’esercito. Nel 2003, in seguito all’invasione, le truppe a prevalenza sunnita furono impiegate dagli Stati Uniti nella lotta contro le forze jihadiste appartenenti, a quell’epoca, al gruppo al-Qaida. L’idea americana era quella di sfruttare il sentimento nazionalista sunnita per espungere la minaccia portata dal radicalismo e in seguito ripagare lo sforzo con l’integrazione dei soldati sunniti nel nuovo esercito iracheno indipendente. Per un periodo questa scelta si rivelò anche positiva. Si costituì il gruppo Shawa, i soldati si riunirono in Gruppi del Risveglio, l’esercito e le milizie furono riunite in un’organizzazione ombrello che permetteva di controbilanciare la presenza dei miliziani qaidisti. Al momento della creazione del nuovo esercito, l’incapacità di al-Maliki di prevedere delle politiche di lungo periodo portò all’esclusione pressoché totale della componente sunnita. L’idea era infatti quella di eliminare ogni aspetto rimasto del periodo precedente, quello del Partito Ba’ath, creato e dominato da Saddam Hussein, che però era, Raìs o non Raìs, espressione della comunità sunnita irachena. Se da un lato i sostenitori civili del partito furono imprigionati, dall’altro i soldati sunniti e ba’athisti furono congedati senza possibilità di reimpiego.

Tra il 2003 e il 2011, nelle regioni a prevalenza sunnita crebbe un malcontento sociale espresso soprattutto da coloro a cui era impedito un qualunque impiego nella nuovo sistema. Tra questi c’erano i soldati, dei professionisti della guerra che non avevano bisogno di altro se non di un leader a cui vendere le proprie conoscenze. La regione più critica in questo senso era infatti l’Anbar, quella regione a ovest di Baghdad che confina con Siria, Giordania e Arabia Saudita, nella quale l’equilibrio instabile e il malcontento sunnita, in teoria controllato dall’esercito americano, si è espresso attraverso il jihad. Silenziosamente al-Qaida cambiò strategia; neanche la morte del carismatico capo Abu Mussab al-Zarqawi, ucciso nel 2006 dalle truppe internazionali, interruppe la sua evoluzione sotto la direzione di Ayyub al-Masri e Abu Muhammad al-Baghadi, tutti puntualmente uccisi, fino al più recente Abu Bakr al-Baghdadi che ne prese la guida nel 2010. Sempre nella stessa regione si venne a formare il Jabhat al-Nusra di Abu Muhammad al-Jaulani, ma esso travalicherà rapidamente in Siria per opporsi al governo alauita, quindi sciita, di al-Assad.

Tuttavia, un situazione così radicalizzata e complessa non può essere imputata esclusivamente al governo iracheno: anche le scelte strategiche americane furono poco oculate. La potenziale minaccia rappresentata dai sunniti esclusi dal governo, dall’esercito e, in generale, dal nuovo tessuto sociale è stata posta sotto controllo con la reclusione degli elementi più violenti, o più potenzialmente violenti, nei campi di prigionia americani. Il più famoso, il Camp Bucca, ha ospitato numerosi di coloro che sono diventati poi leader delle truppe jihadiste. La prigionia ha infatti agito da catalizzatore del malcontento mettendo in contatto i potenziali eversori dell’ordine, dandogli la possibilità di crearsi un capitale sociale spendibile nelle organizzazioni clandestine. Non solo, in quei campi erano presenti già dalla destituzione di Saddam Hussein anche i soldati della Guardia Repubblicana speciale e dell’Istihbarat (servizi segreti del regime), quindi militari detentori di una expertise e di conoscenze di intelligence accumulate negli anni superiori ai comuni soldati, la cui radicalizzazione fu relativamente rapida e semplice.

Questo non deve però far pensare che il Califfato, l’ISIS, sia una naturale evoluzione di quanto avvenuto nel Camp Bucca, o in altre condizioni simili. Al contrario, le fazioni erano, e sono ancora, tantissime, i ribaltamenti di fronte erano frequenti e non tutti si riconoscono nello Stato Islamico (cosiddetto). Le lotte intestine ai gruppi estremisti e radicali saranno però oggetto di un prossimo articolo, interessa in questa sede solo l’aspetto militare.

Tornando un attimo all’aspetto politico, la predominanza e il settarismo favorevole agli sciiti attirò l’attenzione dell’Iran. Il governo iraniano infatti vedeva nell’elezione di al-Maliki una porta spalancata che invitava all’infiltrazione negli affari interni del paese. La creazione dell’influenza avvenne tuttavia in modo subdolo. Il primo tentativo investì la sfera religiosa, ma non fu un successo, in quanto fu ostacolato dall’ayatollah al-Sistani, esponente del clero sciita e influente consigliere politico. In un secondo momento, dunque, l’Iran tentò di attirare a sé i poteri forti attraverso la comunità economica, attiva soprattutto a sud (zona a maggioranza sciita) nei pressi dei pozzi di petrolio. Ma un favoreggiamento degli sciiti provocava nei sunniti un risentimento sempre più grande in relazione alla propria condizione, reale o percepita, di discriminazione, esclusione o emarginazione. Di qui, dunque, la necessità di creare un blocco coeso sunnita che si opponesse allo strapotere sciita. Uno strapotere espresso dal 2011 in poi, cioè dal formale ritiro degli Stati Uniti, da una corruzione interna dilagante e da un governo sempre più tendente ad obbedire a Teheran.

Per l’Iran questa era, ed è, un’occasione insperata. Far rientrare il governo sciita iracheno nella propria sfera di influenza permette all’Iran di costruirsi la propria immagine di potere regionale, con ben due governi (per quanto instabili) sciiti in diretto contatto con l’Arabia Saudita; e contemporaneamente ottenere una merce di scambio con il nemico di sempre, gli Stati Uniti. Per questo dunque l’Iraq fu trasformato in principale partner commerciale, e investito di un sostegno militare espresso con milizie iraniane.

Ma nel 2014, anno di “nascita” dello Stato Islamico (cosiddetto), le cose sono radicalmente cambiate, di nuovo. Quello che sembrava essere un sistema in equilibrio, iniziò a rivelare tutte le sue debolezze. La facilità con cui l’ISIS è riuscito a conquistare le città dell’Anbar, raggiungere i confini del KRG e insediarsi in Siria ha mostrato quanto ciò che era stato fatto fino a quel momento non fosse servito in realtà a rafforzare lo Stato, ma a indebolirlo. La battaglia per la conquista di Mosul è stata esemplificativa: l’esercito entrò nel caos più totale e non perse solo la città, ma anche una grossa fetta del territorio circostante. Un esercito, ricordiamolo, addestrato per anni da Stati Uniti, Gran Bretagna e affiancato dalle milizie sciite al-Hasd al-Shaabi (Mobilizzazione Popolare, guidate da Jamal Jaafar Mohammed, un generale vicino a Qassem Suleimani delle milizie al-Quds) dell’Iran e appoggiato dalla logistica della Coalizione Internazionale.

L’anno successivo la stessa cosa avverrà con Ramadi, una città persa in un disastro provocato da cause multiple, tra cui diserzione e l’incapacità di coordinarsi con le milizie tribali che avevano preso le armi per difendere il proprio territorio senza alcun piano strategico. I successi dell’ISIS, tuttavianon sono da imputarsi alla sua forza, dato che numericamente è nettamente più piccolo delle truppe regolari, ma all’incapacità relativa dell’esercito iracheno di garantire una difesa.

Il 2014 segnò, per quanto sopra, la fine del dominio di al-Maliki. Non esisteva giustificazione politica sufficiente per permettergli di guadagnarsi un ulteriore mandato, e la vittoria alle successive elezioni fu di Haider al-Abadi (sciita ed esponente del Parti Da’ua).

La forza politica di al-Abadi risiedeva nella promessa di riforme, nel risanamento della corruzione politica e economica e nella promessa di ricucire l’alleanza sciita interna. Un’utopia,in realtà, per due motivi: da un lato, nell’ombra rimaneva al-Maliki, e questo rendeva impossibile il passaggio di qualsiasi riforma in Parlamento, dall’altro perché al-Abadi era (è) incapace di imporre la propria linea politica. Questo ha provocato due ulteriori effetti politici: la frattura definitiva delle alleanza sciite interne per cui il clero sciita non sostiene il governo, anzi contribuisce, tramite alcuni dei suoi esponenti, a infervorare e favorire l’espressione del malcontento popolare; inoltre, al-Abadi è riuscito nella difficile impresa di mettere d’accordo i Curdi in Parlamento. D’accordo sì, ma nell’ostacolare le sue riforme.

Con la minaccia costante e pressante dell’ISIS, le campagne militari sono l’unico ambito in cui al-Abadi può racimolare qualche sostegno. Le battaglie di riconquista dell’Anbar sono servite principalmente a mascherare gli effetti disastrosi della politica. La riconquista di Ramadi a dicembre è stato in effetti un palliativo che ha in qualche modo permesso di allentare la pressione per un po’ di tempo. Nella stessa ottica, forse, si può considerare l’annuncio dell’inizio della campagna per la riconquista di Fallujah, persa a marzo del 2014, e circa a 66 km a ovest di Baghdad. Questo è ancora da vedere ma rimane il fatto che le truppe regolari irachene versano in uno stato che impedisce loro di affrontare lo Stato Islamico (cosiddetto) in modo autonomo.

L’Iraq viaggia dunque a due velocità diverse. Da un lato, la società civile, persa completamente la fiducia nelle istituzioni politiche, si ribella e chiede il cambiamento promesso per il quale ha votato, come dimostrano le recenti invasioni della Zona Verde (il distretto amministrativo creato a Baghdad per proteggere la democrazia esportata) da parte degli abitanti della città stufi e fomentati da Muqtada al-Sadr, un esponente del clero sciita, che cavalca l’onda politica nella speranza di indurre una qualche sorta di riforma. Dall’altro, l’esercito sciita inesperto e spesso umiliato, che agisce nella regione a maggioranza sunnita, al duplice scopo di cacciare lo Stato Islamico (cosiddetto) e proteggere il governo dalla rivolta popolare.

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