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L’Uomo e la Tecnica: 100 anni di Bergman

L’eco della potenza espressiva di Ingmar Bergman, nato a Uppsala esattamente cento anni fa – il 14 luglio 1918 -, è tale da rendere ridondante qualsiasi parola in merito. Artefice di una cinematografia tanto vasta quanto complessa, il regista svedese ha saputo dare centralità all’analisi dell’Uomo, avvalendosi al contempo di un’incredibile tecnica registica.

Ne Il Posto delle Fragole (1957) è la dimensione temporale ad assumere centralità, laddove il cuore pulsante della narrazione è proprio il passato del professor Isak Borg. Il film inizia infatti con il sogno del professore, il quale gli ricorda il peso atroce del tempo attraverso una bara che cela proprio la salma del protagonista e orologi privi di lancette. Al risveglio, l’uomo decide di cambiare i suoi piani e di recarsi in auto, accompagnato dalla nuora Marianne, a ritirare un prestigioso premio accademico, anziché prendere l’aereo come previsto. Durante il viaggio, una piccola deviazione lo conduce al “posto delle fragole”, il boschetto che circonda la villa dove Isak crebbe con la sua famiglia. Da quel locus amoenus, in cui rievoca il suo giovane amore, Sara, intenta a cogliere le fragole, il professor Borg è pervaso dai ricordi, che lo porteranno a fare i conti con la sua vita. Nell’opera di Bergman dominano il rapporto fra l’Uomo e il passato, e il costante confronto con la scelta, con sprazzi di un mondo onirico fortemente simbolico, elementi di cui per altro si sentirà l’eco nel capolavoro assoluto di Federico Fellini,  (1963).

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Ne Il Posto delle fragole non mancano cenni ai temi cardine di quella che è la pellicola forse più nota del regista svedese, prodotta proprio nel medesimo anno: Il Settimo Sigillo (1957). Il cavaliere Antonius Block, tornato dalle crociate, affronta in una partita a scacchi la Morte, venuta per reclamare la sua vita. Antonius prolungherà la sfida quel tanto che basta per esplorare ancora l’esistenza umana, in cerca di una risposta alla domanda del trascendente, cui paradossalmente nemmeno la Morte stessa sembra in grado di dare chiarimenti. Il cavaliere verrà torturato dall’ossimorico dilemma dell’onnipresente assenza di Dio, mentre sarà trasportato in un viaggio surreale popolato dai simboli della cultura medievale, come la danza macabra e la morte che gioca a scacchi. Troverà infine il calore della divinità nell’amore che unisce una famiglia di artisti girovaghi, per poi incassare il definitivo scacco matto del suo macabro sfidante. Il sublime capolavoro di Bergman, oltre a trasportare lo spettatore nei temi più profondi e senza tempo dell’esistenzialismo cristiano, si avvale di una regia magistralmente esemplare. In questo film, l’autore crea quasi un’enciclopedia della composizione dell’inquadratura, una delle qualità che più rendono esteticamente notevole la sua filmografia. Anche nelle scene più caotiche, come la sequenza della processione dei penitenti che pregano per debellare la peste, le geometrie della composizione restituiscono ritratti di una cura estrema.

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Bisogna aspettare invece appena nove anni per ammirare Persona (1966), l’opera che più è debitrice del coraggio stilistico di Bergman. In questo intricato dramma psicologico, la sperimentazione è al servizio del rapporto fra Elisabeth, attrice teatrale che sceglie misteriosamente di chiudersi in una completa afasia, e Alma, la sua giovane infermiera. Alma, nel corso dei suoi monologhi, condividerà sempre più sfaccettature di se stessa con la sua paziente, trovando in lei un’anomala interlocutrice che la spingerà ad aprirsi sempre di più, fino a non riuscire più a scindersi dalla sua muta compagna. La progressiva sovrapposizione coscienziale delle due protagoniste, in un concerto di silenzi e fiumi di parole, è restituita da Bergman anche attraverso la sfera non verbale, con sequenze di immagini subliminali e scelte registiche estremamente singolari. Bergman si spinge così tanto nella pura simbologia da produrre una pellicola fra le più ermetiche della storia, in grado di confondere la critica e disperdere ogni interpretazione certa. Il regista giocò anche con le sue due protagoniste, Liv Ullmann e Bibi Andersson: in post-produzione, infatti, inserì un’immagine che produsse montando una metà dei loro volti affianco all’altra, in modo da comporre un unico viso, senza dire nulla alle due attrici. Quando videro la scena, data la somiglianza fra le due, l’una pensò che il viso appartenesse all’altra e viceversa, così che Bergman riuscì nell’impresa di ingannare le stesse protagoniste del suo film.

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Dal bianco e nero caratteristico di molta parte della sua poetica, che contraddistingue anche Persona, si fa più forte anche il rapporto con il direttore della fotografia Sven Nykvist, che firma anche l’eloquente e densa essenzialità cromatica di Sussurri e Grida (1973).  Al suo centro vi sono i rapporti umani putrescenti delle sorelle Karin e Maria, le quali assistono senza vero e profondo sentimento la loro povera sorella Agnese, straziata da un morbo misterioso e in punto di morte; le due sono in reciproco conflitto e nauseate dalla loro vita coniugale, così che Agnese ha solo il conforto della badante Anna, con cui costruisce l’unica relazione genuinamente buona di tutta l’opera. Capacità di Ingmar Bergman in quest’opera è quella di far convivere passato e presente in una dimensione fortemente e simbolicamente temporale, che rivela le sue abilità narrative in virtù del fatto che le numerose analessi non appesantiscono la fruibilità dell’opera. Inoltre, è quanto mai centrale la già citata fotografia di Nykvist, che gioca su un’intensa saturazione e un denso simbolismo, tali da rendere il film “schiavo” delle sue sfumature. Essa è dominata da tre colori chiave: il nero del lutto, il bianco della purezza e, soprattutto, il rosso per il dolore. Questo rosso è infatti imperante, negli interni della villa, oltre a comparire anche nella veste del sangue, fino a raggiungere l’apice nella scena indelebile in cui Karin incide il suo organo genitale con un frammento di vetro, affrontando con la mutilazione la mancanza di contatto sessuale con il marito.

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Come si può evincere da questo breve itinerario tra pellicole iconiche, Bergman è uno di quei rari artisti talmente completi e profondi che ogni ritorno alle sue opere è un nuovo viaggio. Un viaggio, nel suo caso, che penetra l’animo umano così come esplora le infinite possibilità della settima arte, continuando ad indagare questo medium senza mai fermarsi. In effetti, alla Morte che chiede: «Non smetti mai di fare domande?», Bergman avrebbe risposto proprio come il cavaliere Antonius: «No. Non smetto mai».


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