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“L’uomo di neve”, aspettative e delusioni

Sono passati alcuni giorni dall’uscita nelle sale italiane del film L’uomo di neve del regista svedese Tomas Alfredson. Prima di andare al cinema ho visto il trailer, ho cercato il cast, il direttore della fotografia e da chi era formata la produzione della pellicola. Devo essere sincero, leggendo certi nomi mi sono creato un’aspettativa che purtroppo non si è concretizzata sul grande schermo.

Il thriller ispirato dal bestseller dello scrittore Jo Nesbø fa parte della saga sul personaggio di Harry Hole (Michael Fassbender), detective della polizia di Oslo che assieme alla recluta dal passato misterioso Katrine Bratt (Rebecca Ferguson), indaga su un serial killer che sta mietendo vittime nella fredda Norvegia. La fotografia di Dion Beebe ci teletrasporta subito in un paesaggio freddo e glaciale, tipiche dei gialli nordici, che rispecchiano anche l’animo della storia e dei personaggi. I colori spenti riescono ad enfatizzare la loro solitudine e quella violenza cruda che non guarda in faccia a nessuno, brutalmente precisa, come la scena iniziale in cui si cerca di spiegare la nascita del serial killer. Il film si prende tutto il tempo necessario per poter raccontare la sua storia, ricca di flashback che cercano di dare un  messaggio ben preciso: bisogna fare i conti con il proprio passato; a tal proposito il personaggio di Katrine Bratt é costruito molto bene, lei è costantemente alla ricerca della sua verità e per trovarla non esita ad utilizzare ogni mezzo, anche se stessa. D’altro canto il personaggio interpretato da Fassbender può vantare solo la sua recitazione, perché di suo non riesce a trasmettere molto, manca di background, non ci sono quelle sfumature che identificano il carattere di un personaggio. Questa cosa è molto grave perché si sta parlando del protagonista della storia, lo spettatore alla fine del film lo ricorderà semplicemente come il poliziotto alcolizzato che ha una situazione sentimentale complicata, personalità che secondo me scade un po’ troppo nei cliché del giallo.

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La storia cerca di creare attorno a sé e ai personaggi un alone di mistero tramite i flashback riguardanti la recluta Bratt e i primi omicidi del serial killer, Alfredson sembra voler incastrare a forza i pezzi di questo puzzle, e la conseguenza di tutto ciò è creare una trama piuttosto lineare in cui la pellicola svela fin troppo le sue carte e allo spettatore basta collegare i puntini per capire tutta la faccenda. E’ molto bello il valore che viene attribuito alla neve, un elemento così puro, legato all’età infantile, che viene corrotto dal sangue e dalla furia dell’uomo, una componente che provoca l’impulso omicida dell’assassino. L’uomo di neve è un film che cerca di affermare le sue qualità drammaturgiche, ma nel farlo si perde totalmente tra i meandri freddi della sua storia; l’ho trovato piuttosto artificioso nel modo in cui sono state girate certe scene, specialmente il finale che è risultato troppo classico e impersonale. Sembra che Alfredson questa volta non sia riuscito a dare un carattere ben preciso al suo lavoro, sia dal punto di vista narrativo (storia e personaggi) che da quello della creazione stessa della pellicola.

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Il film vanta un cast eccezionale sia dal lato maschile con Fassbender, Van Kilmer e J.K.Simmons che dal lato femminile con Rebecca Ferguson e Charlotte Gainsbourg. Sulle loro interpretazioni non c’è molto da dire, le ho trovate appropriate alla storia che volevano raccontare, come d’altronde ci si aspetta da attori di quel calibro. Però non ci si spiega perché un regista come Scorsese – che inizialmente avrebbe dovuto girare il film – e Alfredson, il cui lavoro finora non ha deluso, siano riusciti a perdersi nella trasposizione del romanzo di Nesbø. Questa è una pellicola che ha creato molta aspettativa perché aveva un grande potenziale, sia come cast che come contenuti, purtroppo il film non é riuscito a far sua la storia dello scrittore norvegese e per questo motivo risulta privo di una forte personalità e in un certo senso incompleto.

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