Università

L’Università ai tempi della crisi

di Marta Mangiarotti


Pareva quasi non ci toccasse di persona la crisi economica tanto discussa negli ultimi anni.

E invece sempre più concreti sono gli effetti sulla nostra vita, Università inclusa.

Pavia è in una situazione particolare: rischia di non essere più nella rosa degli Atenei “virtuosi” (n.d.r. quelle che spendono meno del 90% del fondo di finanziamento) e conseguentemente di ottenere ancora meno finanziamenti.

Già i tagli hanno influito sulla vita degli studenti, anche nel dettaglio: da questi dipende l’aumento delle tasse universitarie e delle more.

L’Ateneo si distingue, però, per una didattica e un’offerta formativa d’eccellenza, con corsi nuovi e sperimentali, sebbene sorga spontaneo chiedersi come sia possibile che, in un momento così delicato che vede la fine di corsi di laurea importanti e storici per Pavia, sorgano corsi nuovi e modifiche di sorta all’offerta formativa.

Un caso che salta agli occhi è la sperimentazione dei corsi di inglese (a Medicina e Economia).

Fonte di orgoglio per un Ateneo che guarda all’Europa, ma sicuramente anche di perplessità sul loro funzionamento.

Per fare il punto della situazione in Università sui tagli e sui corsi, Inchiostro ha chiesto al Professor Francioni, Prorettore alla didattica e all’offerta formativa.

Inchiostro: Stiamo assistendo ad un epocale cambiamento nell’università italiana, a causa dei tagli ai finanziamenti, alla riforma Gelmini e adesso in vista dell’approvazione del DDL 1905 sulla riorganizzazione dell’Università.

Spaventa, tra le altre cose, l’ingresso di una percentuale di membri (40%) esterni all’Ateneo nel Cd’A.

Che influenza potrebbe avere, a livello di didattica, una svolta privata dell’Ateneo, considerando che il Senato Accademico avrà potere solo di fare proposte? Esiste il rischio di un possibile privilegio solo per certi settori della ricerca e certi corsi di studio?

Prof.Francioni: L’attuale grave crisi dell’università italiana dipende in primo luogo dal suo sottofinanziamento, che relega il nostro sistema universitario ai margini dell’Europa. Senza un’inversione di tendenza in tempi brevi, l’università pubblica rischia letteralmente di collassare. A me pare che il vero pericolo sia questo, e non quello, che voi paventate, di una “privatizzazione” dell’università. Intanto, il fatto che il disegno di legge sulla governance universitaria preveda un Consiglio di amministrazione con un’alta percentuale di esterni non significa tout court privatizzazione. E non è detto che un Consiglio formato da rappresentanti interni (dei docenti, del personale ecc.) funzioni meglio di un consiglio di esterni: l’esperienza ci mostra anzi che un Consiglio di amministrazione tutto espressione delle componenti interne di solito non riesce ad uscire da logiche corporative e sindacali. Dunque, non mi scandalizzo per i componenti esterni. Però si tratterà di vedere come sceglierli: un conto è, ad esempio, chiamare come consiglieri degli ex alunni che abbiano maturato nel loro lavoro solide competenze di amministratori (e qui avremmo solo l’imbarazzo della scelta) e che vogliano metterle al servizio della loro università, un conto è scegliere come consiglieri esponenti di aziende private che potrebbero essere interessate a condizionare le scelte dell’università (ma è un’eventualità poco realistica: magari – mi verrebbe di dire paradossalmente – i gruppi privati si interessassero davvero all’università! Ma siamo in Italia, non negli Stati Uniti…).

Detto questo, nel disegno di legge vi sono molte cose che non vanno, in primo luogo il potere pressoché nullo del Senato accademico. Che ci debba essere un Consiglio di amministrazione che amministri con competenza e rigore, è fuori discussione; ma le decisioni di merito, le strategie didattiche e scientifiche, non sono materia da consiglio di amministrazione.

Io credo comunque che la miglior garanzia contro scelte che, in base a logiche “privatistiche” o solo economiche, portassero a privilegiare certi settori della ricerca o certi corsi di studio a danno di altri stia nella “cultura di governo” del nostro Ateneo, che manifesta, in tutte le sue istanze e in tutti i suoi livelli dirigenziali, un forte attaccamento da una parte al carattere pubblico della nostra Università, dall’altra alla sua fisionomia pluridisciplinare, che riconosce pari dignità e importanza a tutti i rami del sapere. Quale che sarà il testo definitivo della legge, credo di poter escludere una “svolta privatistica” dell’Università di Pavia.

Nel Disegno di Legge Gelmini si prevede la riorganizzazione dei dipartimenti e delle Facoltà. A Pavia sono necessari 45 docenti minimo per dipartimento (n.d.r. 35 minimo, negli Atenei con più di mille docenti il numero sale a 45).

Le Facoltà o Scuole diventano facoltative. Quali differenze, nella pratica, saranno sentite dagli studenti? Quali cambiamenti tangibili subirebbe il nostro Ateneo? Quanto sarà necessario cambiare l’offerta formativa?

Non credo che la nuova struttura dell’università avrà ricadute immediate sull’offerta formativa o che produrrà effetti sensibili sugli studenti. La riorganizzazione farà perno sui dipartimenti, ai quali saranno assegnati non solo compiti scientifici (come avviene adesso), ma anche compiti didattici (ciò che finora era di competenza dei Consigli didattici). Il numero dei dipartimenti diminuirà moltissimo rispetto all’attuale, con significativi accorpamenti (e questo è un bene: a Pavia ce ne sono davvero troppi). Anche le Facoltà dovranno diminuire di numero: gruppi di due, tre, quattro dipartimenti omogenei tra loro potranno trovare in una Facoltà o Scuola “di area” il loro punto di raccordo. Detto questo, resta molto vago, nel disegno di legge, a quale livello vengono prese le decisioni (ad esempio quelle riguardanti l’offerta formativa) e come si possa garantire il processo democratico di discussione e di scelta. Quel che non mi piace nel disegno di legge è che la Facoltà o Scuola è concepita come una sorta di comitato di gestione ristretto, non è più un Consiglio dove si possano confrontare posizioni diverse. Ma questo è il limite generale del progetto, molto dirigista e decisionista e poco sensibile a individuare i luoghi della libera discussione. Mentre questa, si sa, è il sale dell’università.

Molti corsi di laurea sono stati chiusi o sono a rischio di chiusura (Beni Culturali, corsi di studi a Scienze Politiche…). Quanto influiranno ancora i tagli della finanziaria sull’offerta didattica d’Ateneo?

Con la riforma degli ordinamenti secondo il DM 270 abbiamo ridotto di circa il 10% il numero dei corsi di studio dell’Università di Pavia. La riduzione ha riguardato più che altro i corsi di laurea triennale, meno i corsi di laurea magistrale, ed è stata dettata in primo luogo da esigenze di semplificazione e razionalizzazione; ma hanno anche pesato i nuovi requisiti di docenza imposti dal ministero, in particolare l’obbligo di avere quattro docenti di ruolo per ogni anno di corso di studio attivato. Nelle Facoltà che hanno meno docenti (in genere quelle dell’area umanistica), ciò ha portato alla dolorosa necessità di chiudere dei corsi di studio che pure andavano bene, come è il caso di Beni culturali. Come è noto, la finanziaria ha posto anche dei limiti precisi al turn over: fino al 2011, ogni anno possiamo reclutare docenti solo nella misura del 50% dei pensionati dell’anno precedente. Il che crea una situazione perversa, perché da una parte il ministero ci chiede di avere quattro docenti per ogni anno di corso, dall’altra ci impedisce di reclutare quelli che ci mancano. Detto questo, penso che l’attuale offerta didattica (che andrà a regime con il 2010-11) non subirà ulteriori mutamenti.

In chiusura di bilancio si notano le difficoltà previste, per il prossimo anno l’Ateneo pavese rischia di non appartenere più all’elenco delle Università “virtuose” (n.d.r. quelle che spendono meno del 90% del fondo di finanziamento). Oltre al non potere più aprire bandi, quali conseguenze potrebbero esserci?

Nel momento in cui dovessimo superare il limite del 90% del FFO, scatterebbe il blocco assoluto del reclutamento, e non potremmo più bandire posti per ricercatori e docenti, almeno fino a quando non riuscissimo a scendere di nuovo al di sotto di quel limite. Sarebbe una situazione molto difficile da affrontare e da gestire. In questo caso potrebbero esserci dei contraccolpi sull’offerta formativa, perché nei prossimi anni vi sarà una sorta di cambio generazionale, con l’andata in pensione, per raggiunti limiti di età, di numerosi docenti che, in quella sciagurata ipotesi, non potremmo in alcun modo rimpiazzare.

Come è possibile e perché proprio in questo momento difficile per l’Università, mentre molti corsi chiudono, rischiano, vengono ridotti, ci sono invece Facoltà, come Economia, che vantano l’apertura di corsi nuovi?

L’apertura di nuovi corsi è stata deliberata contestualmente agli accorpamenti e alle riduzioni di cui ho detto prima. Certe Facoltà hanno deciso di puntare su nuove proposte, e per farlo hanno spesso dovuto eliminare qualcosa della precedente offerta formativa.

Tra gli altri salta agli occhi “Medicine and Surgery”. L’internazionalizzazione, altro “fiore all’occhiello” del nostro Ateneo, è uno dei cavalli di battaglia per tenersi al passo coi tempi e con l’Europa. Il bilancio didattico è positivo?

Il bilancio è molto positivo, non solo per il corso di “Medicine and Surgery”, ma anche per “International Business and Economics” (Facoltà di Economia) e per “Molecular Biology and Genetics” (Facoltà di Scienze MMFFNN), con studenti e docenti molto motivati nel loro lavoro comune. Questi tre corsi di studio in lingua inglese avevano un carattere sperimentale e di sfida: visti i risultati, è probabile che negli anni prossimi vareremo qualche altro corso magistrale in lingua inglese.

CEL e ricercatori spesso lamentano una mole di lavoro sia nel campo della didattica sia nel campo della ricerca in più rispetto al dovuto. La distribuzione del carico è adeguata? Come si garantiscono corsi in lingua straniera se non si potranno più mantenere i Cel che sono di supporto, se non fondamentali, in tali studi?

C’è qualche chiarimento preliminare da fare. In primo luogo, la normativa vigente quantifica i compiti didattici delle diverse categorie impegnate in università, ma non le ore da dedicare alla ricerca scientifica. La “quantità di ricerca” è dunque frutto di una scelta soggettiva, e paradossalmente uno potrebbe anche non fare ricerca del tutto senza incorrere in sanzioni di legge. In secondo luogo, dobbiamo fare una distinzione fra i CEL (che non hanno compiti di ricerca) e i ricercatori, perché il loro stato giuridico e la loro condizione contrattuale è del tutto diversa. Il monte ore dei CEL è fissato da un preciso contratto e il loro lavoro è retribuito in proporzione. I ricercatori, invece, finiscono per avere un carico di lavoro spesso eccessivo, perché, oltre a svolgere ricerca, quasi tutti hanno accettato di essere titolari di insegnamenti (il che per il ricercatore è una possibilità prevista dalla legge, ma non un obbligo), e spesso questi insegnamenti sono svolti a titolo gratuito. Senza gli insegnamenti tenuti dai ricercatori, l’Università di Pavia non sarebbe in grado di garantire l’offerta formativa attuale. E’ un motivo in più per auspicare che le Facoltà ripartiscano in modo equilibrato, e nel rispetto dei rispettivi stati giuridici, i carichi didattici tra ordinari, associati e ricercatori.

Ancora diverso è il discorso sull’insegnamento delle lingue straniere, specialmente entro i corsi di laurea triennale (nelle lauree magistrali, in particolare quelle erogate in lingua inglese, non si dovrebbe insegnare la lingua straniera perché lo studente dovrebbe già padroneggiarla). Quello che manca sono specialmente i docenti di lingua straniera (intendo docenti di ruolo, non CEL, i cui compiti sono di supporto alla didattica, ma che non hanno la titolarità di insegnamenti). Abbiamo da tempo segnalato il problema in Senato accademico, anche se, con le attuali difficoltà finanziarie, è difficile che le Facoltà possano dotarsi in tempi ragionevoli di un’adeguata “rete” di docenti di ruolo delle varie lingue. Per il momento, cerchiamo di ovviare con contratti di insegnamento esterni. Il problema comunque rimane.

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