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Luis Sepúlveda e la (sua) retorica ambientalista

Difendere l’ambiente con le parole. Difendere l’ambiente anche con le parole. Attraverso i libri si può dare voce ad un pensiero ambientalista, ad una prosa retoricamente strutturata che possa tentare di stimolare il cambiamento e invogliare un comportamento eticamente più sensibile verso i problemi ecologici che caratterizzano il nostro tempo. Su questa scia sembra muoversi buona parte della prosa di Luis Sepúlveda. 

Luis Sepúlveda è nato in Cile nel 1949. Ha viaggiato e lavorato in Brasile, Uruguay, Paraguay; ha girato più parti del globo al seguito dell’equipaggio di Greenpeace, mostrandosi sempre politicamente impegnato a favore della salvaguardia del pianeta dalle politiche di sfruttamento.

Parte della sua biografia viene evocata nel romanzo Il mondo alla fine del mondo (1989), che molto può dirci circa l’ideologia dello scrittore. Il 16 agosto 1988 un inquietante messaggio arriva ad Amburgo, presso un’agenzia giornalistica legata a Greenpeace e attiva in campo ecologico: la nave officina per la caccia alle balene Nishin Maru è stata rimorchiata in un porto del Cile completamente distrutta dopo un misterioso incidente. Uno dei reporter, voce narrante e chiara maschera autobiografica dell’autore, inizia ad indagare intraprendendo un viaggio “nel mondo alla fine del mondo”, il Cile, così chiamato non solo per la sua peculiare conformazione geografica, ma anche perché nei sui luoghi sembra aver avuto avvio il principio della fine; infatti, il Cile si colloca alla fine del mondo poiché qui le azioni dell’uomo degenerano nella completa rottura di un qualsiasi legame con la natura, innescando un processo distruttivo.

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Il romanzo di Sepúlveda è un romanzo di ricerca, un’avventura che ricorda, per ambientazioni e toni descrittivi, tanto Moby Dick di H. Melville quanto un giallo poliziesco. Prima di tutto si cerca una verità, che è poi una spiegazione al misterioso incidente che guida le azioni del narratore. Ma si ricerca anche un contatto perduto con la natura; se da un lato l’autore condanna la violenta caccia alle balene, dall’altro racconta anche di tutte quelle tribù che sono scomparse per far spazio al mondo occidentalizzato e alla sua fame di “progresso”, popoli che sapevano vivere in accordo con l’ambiente circostante.

Dove sta questa retorica ambientalista? Essa emerge lentamente, in maniera evidente e senza troppi giri di parole. Volendo far parlare i fatti da sé, Sepúlveda racconte le vicende in maniera lineare, non rinunciando talvolta a punte di lirismo volte ad acutizzare per il lettore il fine di denuncia sociale. 

«Forse quest’ultimo concetto è un po’ difficile da capire, ma vediamo di chiarirlo: quando una nazione ricca istalla una discarica di rifiuti chimici o nucleari in un paese povero sta saccheggiando il futuro di quell’agglomerato umano, perché se i rifiuti sono, come dicono, «inoffensivi», per quale ragione non hanno istallato la discarica sul proprio territorio?»

Ma questa retorica ambientalista si ritrova anche nelle opere dell’autore cileno rivolte ad un pubblico più giovane. In Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996), reso famoso in Italia dal film d’animazione di Enzo D’Alò, emerge con evidenza la volontà di un messaggio ecologista. In questa favola sentimentale, l’intento dell’autore non poteva che essere più chiaro. Adulto o bimbo che sia, il lettore non può che famigliarizzare con i numerosi animali che popolano le pagine del racconto, i quali descrivono le azioni dell’uomo in termini particolarmente densi di significato. 

«Accadono cose terribili nel mare. A volte mi chiedo [a parlare è il gatto Sopravento] se certi umani sono impazziti, perché tentano di trasformare l’oceano in un enorme immondezzaio. Torno da dragare la foce dell’Elba e non potete immaginare la quantità di spazzatura che porta la marea […] Abbiamo tirato fuori bidoni di insetticida, pneumatici e tonnellate di quelle maledette bottiglie di plastica che gli umani abbandonano sulle spiagge».

Come non ricordare il modo attraverso cui i gabbiani, nelle prime pagine del racconto, indicano il petrolio riversatosi nelle acque dell’oceano? La «maledizioni dei mari», la «peste nera». Con sobria eleganza, sia che si rivolga ad un pubblico più adulto o ad uno più giovane, sia che parli di fatti realmente accaduti o metta in scena racconti di stampo esopico, si sente l’eco di una domanda verso cui converge parte della prosa di Sepúlveda: che fare se noi uomini non riusciamo ad ascoltare il grido di una natura ferita?

«‘Miagolare l’idioma degli umani è tabù’. Cosi recitava la legge dei gatti, e non perché loro non avessero interesse a comunicare. Il grosso rischio era nella risposta che avrebbero dato gli umani. Cosa avrebbero fato con un gatto parlante? Sicuramente lo avrebbero chiuso in gabbia per sottoporlo a ogni genere di stupidi esami, perché in genere gli umani sono incapaci di accettare che un essere diverso da loro li capisca e cerchi di farsi capire».

Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

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