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Lou Reed, una vita dietro l’arte

di Elisa Zamboni

Come si scrive un pezzo su Lou Reed? Come si racconta un personaggio a dir poco camaleontico? Infinite sono le registrazioni, le note, le poesie che lo raccontano. Infinite le storie che lo hanno trasformato dal comune e anonimo Lewis Allan all’indimenticabile Lou e altrettante sono le influenze che generò negli ultimi cinquant’anni del panorama artistico-musicale mondiale. A detta del Rolling Stone “Glam, punk e alternative rock sarebbero impensabili senza il suo contributo e esempio”. Una vita intera dentro l’arte.

Ho deciso di raccontarlo attraverso le parole di persone qualsiasi, di gente che l’ha vissuto attraverso la sua arte.
Se dico “Lou Reed”, a cosa pensi?

La personalità di Reed è la prima a saltare alla mente.
«Penso a quel ragazzino di Long Island al quale i genitori imposero l’elettroshock per allontanare in lui le tendenze bisessuali e le strane inclinazioni musicali. Penso a quel ragazzino che non si è lasciato distruggere ma ha trovato il coraggio per ribellarsi e farsi rafforzare lo spirito».
«Penso innanzitutto al suo nome: sinonimo di ribellione».

Esattamente Lou era un ribelle, e come disse David Bowie in un’intervista per il Rock And Roll Heart Documentary: «Lou è la personificazione del bad boy che tutti gli adolescenti vorrebbero essere» e, con un sorriso, «non fatelo, non diventate come Lou Reed!».

Si pensa poi ad alcuni tra i rapporti professionali unici che ebbe.
«Se mi dici Lou Reed penso ai Velvet Underground, a Andy Warhol e alla mia tesina, alla Femme Fatale

Fondatore insieme a John Cale dei Velvet Underground, Lou Reed non riscontrò un grande feedback da critici e pubblico per i suoi primi album, ma a detta di Brian Eno «chiunque abbia acquistato una delle 30,000 copie del primo album dei Velvet Underground ha fondato una band».
La svolta della band giunse quando, per la particolarità della loro musica e del loro look, arrivarono all’occhio di niente meno che Andy Warhol, il “Dracula and Cinderella”, il protagonista indiscusso della Pop Art. Drella, come amavano chiamarlo i suoi collaboratori, adorava attorniarsi di poeti, scrittori, musicisti alla Factory dove poteva produrre ciò che “l’arte avrebbe dovuto essere”. Questi, di fatto, produsse i VU incorporandoli nel suo Exploding Plastic Inevitable . In pratica, come raccontò Reed, «Andy avrebbe riprodotto il suo film su di noi. Ci vestimmo di nero per permettere di vedere il film su di noi. Ma noi ci saremmo vestiti di nero in ogni caso». Sempre Warhol farà adottare alla band la cantante europea Nico: sebbene non fosse inizialmente ben accetta, la ragazza divenne poi l’amante di Reed e Cale. Insieme diedero vita a White Light/White Heat (1968), album dal suono graffiante, corrosivo, ruvido, The Velvet Underground (1969) dal suono più tradizionale e fragile, e a Loaded (1970) – quest’ultimo contente quelle che saranno le evergreen di Lou Reed come solista: Rock & Roll e Sweet Jane.
Lou Reed lasciò nel ’70 i VU, salvo riunirsi alla morte di Andy Warhol nel ’91 per Songs for Drella. Come affermò John Cale, un omaggio a colui che mostrò come «i misfits possano riunirsi e fare arte».

Si pensa poi alla sua incredibile capacità di rendere la realtà tra poesia e musica.
«Lou Reed era prima di tutto un poeta. Un uomo per il quale “venne prima il verbo e poi, necessariamente, una sorta di chitarra primitiva”. Le sue canzoni nascono come poesie poi messe in musica».

Influenzato dal professore e mentore Dalmore Schwartz ai tempi del college, Reed fece sua l’idea che la poesia fosse qualcosa da portare avanti con tutte le proprie forze. Il giovane Lou era interessato a «soggetti che non erano ancora stati raccontati da pop e rock».
David Bowie a sua volta si disse stupito della straordinaria capacità di Lou Reed di definire la realtà che lo circondava: «Non avevo mai sentito nulla di simile. Fu una rivelazione per me!».
Con Bowie, Reed collaborò in Trasformer (1972): album dove il rock più genuino incontra l’ironia del raccontare gli svariati personaggi della Factory di Warhol. Chi non ricorda il “du du du” di Walk on the wild side, una delle maggiori hit di Lou nonostante le sue allusioni al sesso orale. Tra le altre Satellite of love, dove lo stile tipicamente alla Bowie si coglie sulle note di un pianoforte dolce e nostalgico.

«Lou Reed ha saputo dipingere nelle sue canzoni il diverso, ha raccontato la vita dell’emarginato e del tossico quale era; per questo le sue canzoni non sono fini a se stesse, ma trasmettono delle vere emozioni. Ascoltando, ad esempio, brani come Sunday Morning, Perfect Day, ma soprattutto Heroin, non si può non riconoscere l’intenzione di Lou di rappresentare uno stato d’animo, una sensazione. Era un maestro nell’alternare dissonanza e armonia. Per questo merita di essere considerato tra i migliori di sempre».
Ne è un perfetto esempio Berlin (1973) dove vengono raccontati abusi domestici, prostituzione, adulterio, dipendenza dalla droga e addirittura suicidio. Come Lou stesso affermerà, la sua idea era di «dipingere il dolore, dipingere ciò che ferisce». E ci riuscì non solo da un punto di vista di lyrics ma anche con note che evocano la tristezza dello spirito.
Allo stesso modo Magic and Loss (1992), ispirato alla morte di cancro di due amici, contiene a ogni nota il sapore straziante della perdita. «Lo scrissi e basta. Fu tutto ciò che potevo fare per loro».

«Se mi dici Lou Reed penso, forse banalmente, a come seppe imprimere alle canzoni d’amore non il solito andamento strappalacrime. Seppe parlar dei sentimenti con purezza e dolcezza. Seppe farsi trasportare dall’amore».
Prima di unirsi in matrimonio, tra le varie storie di Lou compare quella con una transgender Rachel, protagonista di Coney Island Baby e a copertina dell’album Walk on the Wild Side: the Best of Lou Reed (1977).
Sposato prima con Sylvia Morales e con Laurie Anderson dopo, Reed si lasciò trasportare tanto dall’amore da produrre tra i suoi più eccellenti lavori proprio in questi periodi.
Alla prima moglie sono dedicate canzoni da svariati album tra cui Think it over e Heavenly Arms. Con la seconda invece legò non solo un rapporto sentimentale ma anche professionale che lo aiutò nella produzione di The Raven (2005) basato sulla messa in musica di brani di Edgar Allan Poe.

«Se mi dici Lou Reed penso alle sue canzoni, canzoni che calzano per ogni occasione. Le sue parole, come dire?, vanno sempre! Sono come la colonna sonora per qualsiasi momento, anche il più banale come andare in treno, ad esempio.»
«Se mi dici Lou Reed penso alle centinaia di Sunday Morning prima delle partite e in testa mi suona “Doo, doo doo, doo doo, doo doo doo doo…”».
«Penso a mio padre. Alla colonna sonora delle vacanze estive in Irlanda».
E questo era proprio ciò che Lou Reed voleva. «Quando canto, io e le persone accanto a me diventiamo più intime, e quando canto voglio che le cose sembrino reali, che voi crediate che siano reali».

E, per chi ha avuto la straordinaria opportunità, di viverlo si pensa ai concerti:
“Era il 7 Settembre 1983 ed ero al mare con i tuoi nonni. Siccome ero stato rimandato in meccanica, mi toccava tornare prima e fare l’orale. Eppure non potevo perdermi Lou Reed all’Arena e non lo feci. Zaino e sacco a pelo in spalla andai al concerto. Ricordo che dormii sul treno del ritorno e la mattina diedi l’esame. Promosso. Una notte memorabile!”
Nottata incisa poi da Reed nel vinile Live in Italy.

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