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Lo Hobbit: mito, allegoria e immaginario collettivo per l’oggi

Il 21 settembre di quest’anno festeggia il suo ottantunesimo compleanno uno dei capolavori di John R.R. Tolkien, Lo Hobbit. Con la sua pubblicazione, questo modesto libricino ha influenzato e segnato la storia, prima della letteratura fantasy, poi di tutto l’immaginario collettivo.

Il cosiddetto fantasy classico, filone della letteratura di genere dai connotati epici e mitologici, viene consacrato proprio dal professore inglese con la pubblicazione della prima edizione de Lo Hobbit (1937), e poi de Il Signore degli Anelli (1955), due testi che, come è noto, vanno a formare l’unico corpus delle cosiddette leggende del mondo di Arda. Negli anni ’60 si sviluppa una fiorente letteratura fantasy proprio grazie alla diffusione, negli Stati Uniti, delle opere ambientate nella Terra di Mezzo, opere che influenzeranno anche l’universo cinematografico. Tanti i registi che hanno sognato di realizzarne una trasposizione sul grande schermo, ma va anche ricordata la realizzazione di due lungometraggi animati (trasposizioni parziali delle due opere, nel 1978, che però non godettero di grandissima fortuna). L’impatto nel mondo del cinema fu talmente impressionante che anche George Lucas ne fu influenzato per forgiare l’universo mitologico e fantascientifico del suo Star Wars (1977). Ma per assistere ad un grande ritorno del fantasy classico di ispirazione tolkeniana, e ad una sua eco straripante sull’immaginario collettivo, (in antitesi con alcune derive o esplorazioni letterarie del genere apparse sul finire del Novecento) bisogna attendere gli anni Duemila.

Il ritorno in voga del fantasy classico è senza dubbio da imputare allo stratosferico successo dei grandi blockbuster cinematografici del primo decennio del nuovo millennio: la trilogia del Signore degli Anelli (2001-2003), per l’appunto, realizzata da Peter Jackson, e la trasposizione in otto film della saga di Harry Potter (2001-20119) che, pur rivolgendosi ad un target adolescenziale, dette una notevole impennata all’impatto del fantasy rispetto alla fantascienza che aveva, fino ad allora, dominato la letteratura di genere e di consumo (invadendo anche il cinema). Come mai proprio nei primi anni Duemila il fantasy classico, grazie alle sue trasposizioni cinematografiche, è riuscito ad intaccare l’immaginario collettivo del grande pubblico tanto da diventare una vera e propria icona pop della nostra era?

Il mondo del fantasy si differenzia da quello strettamente fantascientifico per il suo costante ricorso al mito, all’archetipo, al simbolo e all’allegoria, nonché per un’ambientazione primitiva o primordiale che rifugge spesso la tecnologia (fatta eccezione per la saga di Star Wars che contamina brillantemente archetipi del fantasy con la tecnologia). Il mito trova la sua forza in due aspetti: innanzitutto porta con sé qualcosa che l’uomo ha già vissuto e in cui altri uomini, anche dopo secoli, possono riconoscersi, è specchio di qualcosa che è già accaduto più volte; in secondo luogo, il mito auto-genera mito ma plasma anche il presente, il futuro, lo sguardo e l’immaginario dell’uomo che lo vive e che lo racconta. La società occidentale, dal secondo dopo guerra in avanti, ha vissuto una radicale ma graduale perdita del mito, e una perdita della dimensione rituale, a favore di un soggettivismo che non necessita più dell’esistenza di valori collettivi ma riduce tutto ad una scelta individuale. Il mito è esattamente il contrario. È qualcosa in cui tutti si possono riconoscere e rispecchiare e che, allo stesso tempo, plasma il nostro modo di intendere il mondo (le ricerche antropologiche di Arnold Van Gennep e di Victor Turner hanno dimostrato tutto questo). Non è dunque un caso che la vicenda di Frodo abbia avuto un così grande eco nel 2001, nel punto di arrivo del percorso di perdita del mito da parte dell’Occidente.

Lo Hobbit è il primo step dell’articolatissimo universo creato da Tolkien, e mantiene ancora oggi tutta la sua potenza immaginifica e fantasiosa. Grazie ad una scrittura piuttosto semplice, ma che non rifiuta gli archetipi del mito, il linguaggio risulta tanto diretto da riuscire a trasmetterli al grande pubblico, rifiutando intellettualismi che non sarebbero stati apprezzati negli anni ’60 tanto quanto oggi (questa scelta allontanò il professore dal premio Nobel poiché la sua opera venne etichettata come prosa di bassa qualità). Così, nel piccolo Bilbo Baggins, insignificante essere appartenente ad una razza talmente reietta (gli hobbit) da non essere per nulla considerata dalle altre razze, si rispecchiano e si rivedono i tanti io del nostro oggi che, costretti ad una vita anonima o passiva, vorrebbero incontrare il loro Ghandalf per essere travolti in una grande «avventura». “La storia non la fanno solo i grandi ma anche i piccoli”, questa la morale sottesa ad ogni forma di mitologia, da quelle nordiche a quella cristiana, ma che quel piccolo hobbit di GranBurrone, grazie alla creazione non di un mondo possibile, ma di un “mondo altro”, risulta essere molto reale e percepibile. Il mondo e i personaggi di Arda mettono in ginocchio la nostra contemporaneità toccando le corde più profonde dell’animo umano e il nostro bisogno intrinseco di certezze o di punti di appoggio in un mondo così caotico. L’eterna lotta tra il bene il male, l’indecisione tra sacrificio e egoismo, la paura contro il coraggio, l’umiltà e la semplicità contro la forza, sono tutte tematiche che ricorrono in tutte le forme mitologiche ma che, nell’opera di Tolkien, a partire da Lo hobbit, si incarnano in volti, storie e figure che ci appaiono talmente reali da sembrarci autentiche.

 

Ecco perché nel 2011 Il Signore degli Anelli è riuscito a godere di un successo così planetario, diventando a tutti gli effetti una sorta di nuova mitologia delle origini della nostra società. Non a caso, Tolkien non scrisse il libro della Quarta Era perché sarebbe stata l’era in cui la razza umana avrebbe preso il possesso di tutto il mondo, facendo venir meno tutte le altre razze. Una metafora del nostro presente, insomma, di cui le vicende della Terra di Mezzo sarebbero un lungo prologo. Un inno alla diversità, alla polifonia e alla ricchezza contro l’egoismo imperante del mondo di oggi. e, nello stesso tempo, un invito alla ricerca delle origini, non solo della propria cultura ma di tutta l’umanità nella sua profonda essenza. In fondo, chi di noi, almeno una volta nella vita, non si è sentito come quel piccolo hobbit che «viveva in un buco nella terra»?

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