Attualità

L’italiano siamo noi, nessuno si senta escluso!

Nella conversazione quotidiana esistono una serie di argomenti riguardo ai quali tutti ci sentiamo un po’ professori; argomenti principalmente legati a qualcosa che viviamo ogni giorno, per questo ci riteniamo in grado di poterne parlare con cognizione di causa: il clima, la politica, i giovani, il cibo… Tra i tanti, anche la lingua. Mi riferisco alla nostra, la lingua italiana: flagello di generazioni di studenti, indipendentemente dal tipo di scuola o dal grado di istruzione, costretti a subire il tormento dei riassunti, della parafrasi o dei saggi brevi; obbligati da docenti più o meno sadici a imparare a memoria Carducci, Foscolo e Leopardi, o ad impazzire sulle pagine di Manzoni o di Tomasi di Lampedusa; convinti più o meno con la forza a leggere I Malavoglia o La coscienza di Zeno, perché “bisogna leggere”, perché leggere “fa bene”… Insomma, lo dicono tutti! Perfino Snoopy: «Leggere è un cibo per la mente, e tutto ciò che ha che fare con il cibo deve per forza essere buono»!

Della lingua non possiamo fare a meno. Essa infatti non è solo letteratura, anche se un approccio esclusivamente scolastico ci indurrebbe a pensarla così. Lingua è prima di tutto comunicazione: come veicolo comunicativo, usiamo la lingua tutti i giorni. Negli ultimi anni forse la usiamo un po’ di più. Anzi, senza forse, soprattutto quella scritta. Durante il periodo del boom economico, in Italia inizia a diffondersi, realmente e per la prima volta, l’italiano parlato, che pian piano sostituisce i vari dialetti: l’ardua impresa spetta ai nuovi media come il cinema (Totò si permetteva di prendere in giro con le sue bazzecole, quisquilie e pinzillacchere tutto quel linguaggio troppo retorico, troppo letterario e troppo poco “parlato”), la televisione (il maestro Manzi con Non è mai troppo tardi ha insegnato la grammatica a migliaia di giovani dal 1960 al 1968) e perfino la canzone (con la vittoria di Modugno al Festival del 1958, e soprattutto con i giovani cantautori di fine anni Sessanta e primi anni Settanta, anche le canzoni parlano un italiano vivo e vero). Ma sempre di lingua parlata si tratta. E la lingua scritta?

Per decenni, gli italiani hanno scritto solo lettere (prima dell’avvento delle mail) o liste della spesa, talvolta perfino assegni, ma soprattutto temi a scuola: gli spazi della scrittura diciamo che erano decisamente limitati. Oggi invece la situazione è cambiata. Si scrive tanto, tantissimo, come non era mai successo nel nostro paese. Certo, come osserva Claudio Marazzini, attuale presidente dell’Accademia della Crusca, è un po’ limitante ridurre argomentazioni importanti come quelle politiche ai 280 caratteri di un Tweet, ma tant’è: oggi tutti scrivono moltissimo, tra Facebook, Twitter, WhatsApp e molto altro. Il problema è come si scrive. Si scrive male, con tanti (tantissimi) errori di grammatica; si scrive con abbreviazioni, con emoticon e emoij, talvolta perfino con le gif. Come in un coro, si innalzano i puristi che urlano allo scandalo: “Dove è finito l’italiano? Ridateci Dante, Boccaccio e Petrarca!”. La rete davvero ha distrutto la bellezza della nostra lingua? Le polemiche e i dibattiti non mancano, pensiamo da ultimo all’eco mediatica che ha avuto la cancellazione del tema storico dalle prove di maturità voluta da Luca Serianni, tra i più autorevoli esperti italiani in fatto di lingua.

A complicare le cose oggi, ci pensa anche l’inglese: Il rischio di imbattersi quotidianamente in inglesismi è frequente, soprattutto accendendo la Tv e sentendo parlare di spending review o di dress code, oppure andando sul web e leggendo di fake news o di editing; anche all’Università di Pavia, ora, quando accolti nella nuova biblioteca di Studi Umanistici, agli studenti viene detto che per accedere al primo piano serve il badge. Siamo dunque invasi dall’inglese? Tantissimi i dibattiti che ne conseguono: quando iniziare a studiare l’inglese? E i corsi di laurea in inglese?

Non solo l’inglese… Anche il dialetto oggi rischia di essere un problema! Ormai si sa, la lingua è strettamente legata al senso più profondamente identitario di un popolo o di una nazione (basti come esempio il basco), ma tra senso identitario e nazionalismo il passo è breve (e piuttosto pericoloso). Le strade credo siano due: mettere in un paese di provincia un doppio cartello italiano/dialetto può diventare occasione per “aggredire” il paese vicino, in nome della presunta superiorità e autenticità del proprio dialetto; allo stesso tempo, i doppi cartelli in italiano/tedesco in Süd Tirol sono invece indicatori di una radicata doppia cultura (per la verità più tedesca che italiana), ma pacifica, anzi, a cui gli italiani “puri” dovrebbero guardare per impararne e coglierne tanti aspetti.

Anche nel 2018 dunque è viva e vegeta una sottospecie di questione della lingua, un po’ come ai tempi di Dante e di Boccaccio, del cardinal Pietro Bembo o di Alessandro Manzoni. Per questo, ogni due anni, si organizzano eventi come Gli stati generali della Lingua Italiana e la Settimana della lingua italiana nel mondo, che vogliono fare il punto della situazione sull’attualità dell’italiano.

Belle notizie anche nell’ottobre di quest’anno: negli ultimi cinque anni gli studenti di italiano in terra straniera sono cresciuti di ben oltre 500.000 unità; l’italiano è sempre di più lingua di lavoro per tutti coloro che sono costretti a entrarvi in contatto per questioni lavorative; l’italiano inoltre resta saldamente la quarta lingua più studiata al mondo, seguendo a ruota l’inglese, lo spagnolo e il cinese. Non serve dunque spaventarsi di fronte all’invasione di anglicismi perché, come osserva Giuseppe Antonelli nel suo Museo della lingua italiana, di recentissima pubblicazione, in realtà sono quasi sempre forme (escludendo il linguaggio del web) il cui uso è amplificato dai media, ma la loro influenza nella vita quotidiana è molto bassa; inoltre, sono soltanto parole, ed il lessico, ormai è noto, è soltanto il livello più superficiale di una lingua. Non serve dunque fare ricorso a tutte quelle parole che nel 1995 Arrigo Castellani aveva brillantemente e un po’ precocemente proposto: niente fubbia per smog, niente abbuio per black-out, niente compiutere per computer. L’italiano è vivo e lotta insieme a noi, scriveva un paio d’anni fa Mirko Volpi, professore di Linguistica Italiana presso la nostra Università. È vivo con i suoi congiuntivi (anche se talvolta vengono sbagliati), con i suoi neologismi orrendi (che si dimenticano presto), con i suoi giganteschi errori sui Social, ma è vivo più che mai. Forse un po’ più povero.

È qui che deve intervenire ciascuno di noi. Se è vero quanto affermava De Gregori in un suo brano del 1984, ossia che «La storia siamo noi, nessuno si senta escluso», è vero anche che l’italiano siamo noi, nessuno si senta escluso! Dunque, sentiamoci responsabili oggi di una lingua che permette la conservazione di un patrimonio artistico e culturale tra i più ricchi di tutto il mondo, ma allo stesso tempo non cadiamo nel tranello dell’autoreferenzialità o del proselitismo, utilizzando la nostra lingua come arma per aggressioni più o meno reali. Piuttosto, studiamolo questo italiano, leggiamolo, parliamolo, scriviamolo (un po’ meglio), viviamolo e arricchiamolo. Solo così, non solo lo salveremo, ma arricchiremo un po’ anche noi stessi. Perché, lo ripeto, la lingua siamo noi.

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