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L’incubo di essere donna: Louise e Renée

«Preferirei essere ucciso da Louise che vivere a lungo con Renée».

Così affermava Honoré de Balzac[1] in una lettera indirizzata a George Sand, dedicataria[2] dell’opera che ha nome proprio Louise e Renée. Un romanzo epistolare che costituisce sia un meraviglioso spaccato d’epoca che un’indagine chirurgica della menti femminili che all’ombra di quell’epoca hanno vissuto. Donne che, sottomesse fin dalla nascita all’egemonia paterna, si avviavano alla maturità e a un bivio dalle strade fisse: matrimonio o clausura. Servitù al marito oppure servitù a Dio.

Sono amiche d’infanzia, Louise e Renée, trovatesi reciprocamente tra le fredde pareti della scuola del convento. Una sognatrice e una pragmatica: entrambe destinate, in un modo o nell’altro, a schiudere le ali, a spiccare il volo verso il mondo reale. E a esprimere, nelle rispettive lettere, due visioni completamente diverse della vita.

Queste le premesse del “libero adattamento”[3] allestito presso il Piccolo Teatro di Milano, disponibile dal 21 marzo al 30 aprile.[4] Diretto da Sonia Bergamasco e basato su una rielaborazione di Stefano Massini, Louise e Renée porta in scena Isabella Ragonese e Federica Fracassi nei panni delle due amiche d’infanzia: due identità radicalmente diverse, animate da pulsioni opposte e trattenute sul bordo dei rispettivi baratri da quell’esile filo di corrispondenze continue, disperatamente martellanti, nel cui gioco si svolge tutto quanto lo spettacolo e nel cui fluire si riassume l’esistenza delle protagoniste.

Renée si sottomette al destino femminile previsto dal suo tempo e vi trova un pur modesto spazio di felicità; Louise pensa di potersi muovere tutta la vita al di fuori della convenzione, in cerca di un amore fiabesco di cui forse non può nemmeno immaginare le sembianze. Riflesso l’una dell’altra – abito candido e crine rosso – quasi fossero la stessa persona proiettata su due diversi specchi distorcenti: quello che sulla figura che vi si specchia imprime il peso materno della responsabilità e quello che, al contrario, le permette di librarsi sulle ali di una fantasia delirante e fine a sé stessa.[5]

Esistenze agli antipodi raccontate da parole di eguale passione, rese vive e viscerali dalle due splendide interpreti.

A fare da sfondo alla vicenda scenica, una meraviglia a parte, quella  scenografica. In apparenza minimalista fino alla povertà, la scena di Louise e Renée è lo spazio geometrico dell’interiorità: una serie di rettangoli, spostati lungo traiettorie disperatamente lineari da meccanismi invisibili, diventano di volta in volta specchi, pareti, separé, angoli di confidenza tra le due protagoniste. Uno specchio effettivo si situa, discreto, in fondo al palcoscenico, scoperto dai pesanti tendaggi quando è chiamato a sdoppiare ulteriormente le identità in scena, acuendo il loro conflitto interiore.

Tale affresco della mente è ulteriormente frammentato dall’intervento dei giochi luministici, a loro volta semplici quanto strepitosamente efficaci: fari che delimitano lo spazio d’azione delle due donne, conferendo maggiore risalto a quelle zone d’ombra emblematiche dell’incolmabile distanza – fisica e mentale – che separa identità covate nello stesso nido.

Sarebbe bello chiudere l’articolo con delle domande – divise, come da calzante tradizione ottocentesca, in base al genere d’appartenenza del pubblico.

Ladies. Una vita trascorsa tra le umili gioie della normalità e della routine o una fieramente arroccata sulle guglie di un’intensa fugacità, inflessibile a qualunque compromesso: quale delle due preferireste?

Gents. Sareste d’accordo con la citazione che apre il pezzo?

Cercate delle risposte nello spettacolo, se vi va.

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[1] Una volta, informato che a casa nostra fosse stato adottato un gattino randagio, mio padre ha proposto di chiamarlo «Honoré».

Io, bambinetto di pochi anni, l’ho guardato con occhi colmi di perplessità chiedendogli il perché di tale proposta onomastica.

Mio padre ha mimato il gesto delle forbici e ha esclamato trionfante: «Perché Bal-zac!».

Non ci siamo più parlati, da allora.

[2] Per quanto possa risultare scioccante, George (da pronunciarsi «ʒɔʁʒ», in incomprensibile e curiosamente cirillica scrittura fonetica) è una lei.

Peggio della bambina Ugo.

[3] Detto, in tutta sincerità, senza il grano di sale che si suole masticare in presenza di simile espressione. Pur non avendo familiarità col testo originale, la pièce mi è parsa perfettamente rispondente all’atmosfera e all’immaginario dell’epoca.

[4] All’alba della pubblicazione del presente articolo, a quanti ancora volessero vedere lo spettacolo non posso che consigliare – precariamente aggrappato a un appiglio a precipizio sul nulla – «Fuggite, sciocchi (in biglietteria)!».

[5] E pensare che una volta gli specchi distorcenti si limitavano a ingrassare o dimagrire. Preistoria.

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