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L’happy end di Michael Haneke

«Spazzolino da denti. Asciugamani. Capelli. Posa la spazzola. Fa la pipì. Spegne la luce.»

Trasmesse in diretta da un social, scorrono insieme ai silenziosi titoli di testa le prime immagini di Happy end, diretto da Micheal Haneke, che – dopo un’accoglienza tiepida all’ultimo Festival di Cannes -, a cinque anni dal pluripremiato Amour (2012), torna al cinema con un nuovo ritratto ed un nuovo microcosmo da scrutare, dividendo a sua volta non solo lo spettatore fortuito, attratto da un titolo rassicurante e poco avvezzo ad un cinema che fa del cinismo le sue fondamenta, ma anche il suo pubblico più affezionato, con una pellicola mancante forse di quella incisività che è lecito aspettarsi, parlando del probabile film di fine carriera del regista.

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Il punto d’osservazione del cineasta rimane l’alta borghesia europea in perenne dissoluzione, questa volta sullo sfondo di una Calais crocevia dell’immigrazione, con la giovane Eve (un’innocente e mefistofelica Fantine Harduin) costretta a trasferirsi, dopo un misterioso malore della madre, dal padre (Mathieu Kassovitz) fedifrago ed incurante nei suoi confronti fino a quel momento, entrando così nella magione del nonno paterno (Jean-Louis Trintignant), patriarca ottuagenario costretto dalla vita nella vita, e fondatore di un’impresa edile lasciata nelle mani della figlia Anne, interpretata graniticamente da Isabelle Huppert.

Seppur notando un’inflessione a tratti ironica nella pellicola, non è nei suoi 113 minuti di durata a doversi ritrovare confinato il film, pena un giudizio semplicistico che guarderebbe a Happy end come ad un lavoro solo complessivamente privo di mordente. Visto nell’ottica di ultima fatica del regista settantacinquenne, l’impressione che se ne ha a visione terminata è quella di un compimento della propria carriera, un ulteriore tassello in grado di congiungere e richiamare in un circolo virtuoso, o vizioso, gli elementi narrativi e tecnici salienti della stessa per fare della pellicola un’opera armonizzata ai canoni della sua cinematografia.

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Così come la riflessione sul ruolo anestetizzante dei social network e del rapporto con essi non fa altro che inserirsi a completamento dell’indagine di Haneke del ruolo dei media come filtro della realtà, già presente in Benny’s video (1994) e Caché (2005); la famiglia Laurent, scevra di valori, ancora una volta con il notiziario sugli schermi della tv ma distaccata dal mondo, votata all’apparenza ed endemicamente corrosa nei rapporti interni non è altro che un’ulteriore sfaccettatura o, per meglio dire, frammento del tema già ampiamente descritto: non solo Georges richiama come un déjà-vu in nome e in fatto lo stesso personaggio interpretato dall’amico Trintignant nel capolavoro che valse ad Haneke la Palma d’oro nel 2012, così come curiosamente vengono invertiti i nomi di Eva ed Anne, in Amour figlia e madre, qui nipote e figlia, ma il nichilismo radicato in Georges non può che essere il medesimo che muove l’agire dei personaggi hanekiani fin dalla prima pellicola del regista, Settimo continente (1989). In quest’ottica, i protagonisti di Happy end, non risultano particolarmente approfonditi di per sé nell’istantanea che ci è mostrata e, in alcuni momenti della pellicola, in alternanza a lunghi pianisequenza, è evidente un distacco fisico tra spettatore e vicenda, già di per sé oscurata dalla tipicità del Cinema a cui ci ha educati il cineasta, ma, sebbene da un lato si possa ravvisare quasi una stanchezza del regista nei momenti in cui la macchina da presa si allontana dagli attori lasciando che i rumori sovrastino i dialoghi o costruendo delle riprese silenziose con camera fissa posta in lontananza, dall’altro lato l’effetto finale non risulta quello di estraneità allo spettatore, perfettamente in grado di rivedere in questi nuovi personaggi il riflesso, compiaciuto, dei precedenti protagonisti.

L’happy end è promessa mantenuta? Per lo spettatore sì, se in questo modo vuole interpretare la silenziosa grottesca sequenza finale dal retrogusto amaro con cui ci congeda il regista austriaco, lasciandoci sbigottiti.

– SALE CHE PROIETTANO IL FILM –

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Per guardare il trailer, clicca qui.

Chiara Turco

Chiara Turco nasce a Pavia il 23 agosto 1993. Frequenta il liceo scientifico "C. Golgi" di Broni (PV), diplomandosi nel 2012. Nel febbraio 2018 consegue la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Pavia. Appassionata di Cinema, diventa redattrice di Birdmen nel dicembre 2016, per poi successivamente occuparsi anche dell'ambito social network.

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