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Legalitante I | L’identikit del caporale

Quello che state per leggere è una rielaborazione di una ricerca commissionata da ADOC, un’associazione per la difesa del consumatore, e finanziata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. È stata svolta analizzando i dati ufficiali, intervistando le parti sociali che si occupano di questi temi quotidianamente e traendo le somme su un fenomeno che sempre di più si rivela essere radicato nel territorio: il caporalato. Ma non solo: in questa rubrica tenterò di affrontare il lavoro irregolare in generale. Il titolo stesso, “legalitante“, vuole dare l’idea di una legalità sfuggente, quasi latitante.


 

Nonostante il termine derivi dalla parola caporale in termini militareschi, il caporalato non ha nulla a che vedere con le forze dell’ordine, tanto meno con la giustizia. Per sua definizione il caporalato è l’assembramento di manodopera a basso costo, bassa specializzazione, senza garanzie, senza tutele e quindi, sostanzialmente una realtà di sfruttamento del lavoratore. In primo luogo, oggi il fenomeno si fa sentire maggiormente per una questione storica che lo favorisce in un certo senso, ovvero l’immigrazione. Come accade da sempre, vedasi gli italiani emigrati negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso, la prima generazione di migranti non raggiunge uno stato di benessere degno di essere chiamato tale, ma sottostà ad un sistema che non comprende, pur di sopravvivere. Si parla di sussistenza piuttosto che di vero e proprio lavoro e in questa realtà qualcuno ha da guadagnarci. In questo fenomeno le parti in causa sono molteplici. La figura chiave è, come preannuncia il nome stesso, il caporale. Questo è, in soldoni, un intermediario fra il datore di lavoro (per esempio, un’azienda agricola) e il lavoratore. Ovviamente è una figura non riconosciuta, che sfrutta, che lavora in nero e che guadagna dal lavoro altrui. Esiste una vera e propria organizzazione all’interno della schiera dei caporali. Esiste la figura del caponero, che recluta, divide e crea le squadre di lavoro; poi troviamo il tassista che si occupa del trasporto dei lavoratori; c’è il venditore, ovvero colui che vende agli sfruttati, ovviamente a prezzi fuori dal mercato, beni di prima necessità, quali quelli per l’igiene, ma anche cibo e acqua; l’aguzzino è invece colui che si occupa della parte coercitiva, dell’uso della violenza, non solo fisica ma anche morale, come accade quando vengono ritirati i passaporti e/o i documenti dei lavoratori. Il quadro che ne risulta è quindi quello di una realtà strutturata e ben organizzata, viva e funzionante.

Parlando di numeri, bisogna principalmente affidarsi ai dati risultanti da analisi del movimento sindacale. La ricerca riconosce 20 milioni di lavoratori al mondo in stato di sfruttamento e lavoro forzato, di cui 3,5 nell’agricoltura. Questa massa ingente genera un guadagno agli sfruttatori di 150 miliardi di euro l’anno, di cui 9 dalla sola agricoltura. Focalizzandoci sull’Italia, si osservano principalmente 80 punti nevralgici che comprendono al loro interno tra i 400 e i 430 mila lavoratori potenzialmente a rischio caporalato. Si parla di rischio, e non certezza, poiché reperire dati precisi è particolarmente arduo, ma contemporaneamente si riconoscono le dinamiche e i presupposti per il fenomeno: lavoro nero e sommerso. Nel nostro Paese si stima un’economia non osservata che si aggira tra i 250 e i 290 miliardi di euro e che coinvolge tra i 3 e i 3,8 milioni di persone con impiego irregolare, che a loro volta contribuiscono, per via del mancato ritorno economico in tasse e oneri vari, ad un ulteriore danno economico stimato fra i 25 e i 35 miliardi di euro l’anno. Nel solo settore dell’agricoltura si parla di un’economia sommersa ed informale del valore di 2/5 miliardi di euro che genera a sua volta un danno economico che si aggira fra i 3,3 e i 3,6 miliardi di euro l’anno.

Sui dati riscontrati e presentati si possono tirare delle somme generiche ma attinenti, e quindi riassumerle in breve: un lavoratore che entra nel giro del caporalato percepisce un salario inferiore di circa il 50% rispetto ai contratti nazionali e infatti la sua paga giornaliera si aggira fra i 20 e i 30 euro; non è da escludere che vi siano casi in cui le cifre siano molto inferiori soprattutto alla luce dell’aumento dell’immigrazione sul territorio italiano; non vi sono ancora dati ufficiali ma è ipotizzabile una ulteriore degenerazione del fenomeno. Una giornata lavorativa è composta mediamente di 8/12 ore, senza tutele, diritti, senza le garanzie minime, come l’igiene a cui il 60%, si stima, dei lavoratori non riesce ad accedere. A questo mancato guadagno va aggiunta un’ulteriore beffa, ovvero quella del pagamento del trasporto (5 euro di media) e dei servizi e beni di prima necessità (1,50 euro per l’acqua, 3 euro per un panino, e così via).

A questo punto ci si chiederà quanto può fruttare ai singoli caporali questo business. Secondo le stime il ritorno economico si basa sulla mansione svolta da ogni anello della catena. Per semplicità vengono presi in considerazione 450.000 cassoni riempiti al mese, con un valore unitario di 4,5 euro; ogni capo negoziatore guadagna 50 centesimi per cassone, per un totale di 225.000 euro a fine mese. Questi soldi vanno poi divisi per l’intera squadra di collaboratori. La gran parte, 95.000 euro, vanno al negoziatore; circa 10.000 al vice capo. 5.000 agli intermedi e circa 2.000 ad altre figure, come quella dell’autista. Pur essendo una ricostruzione esemplificativa e probabilmente al ribasso, evidenzia chiaramente un giro di soldi incredibilmente strutturato.

 

TUTTE LE PUNTATE DI LEGALITANTE

 

I – L’identikit del caporale

II – Caporalato, mafie e false cooperative

III – Il duro braccio della Legge

IV – Differenze fra elusione ed evasione fiscale

V – La parentesi morale

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