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Le Recensiony: In time

Se dovessi paragonarlo ad una giornata, questo film sarebbe il momento in cui ti accorgi, magari una volta entrato in aula ad un orale, che hai bisogno di più tempo, ed allora fai in modo che vada avanti qualcun altro, ti svincoli in qualche maniera, fai finta di essere in ritardo campando per aria scuse a caso. Credo, però, che più propriamente questo film sarebbe il momento esatto in cui Fantozzi, incazzato come una bestia leggendo letteratura comunista, esclama:

“Ma allora mi hanno sempre preso per il culo!”.

Bando alle ciance, per la regia di Andrew Niccol, oggi parliamo di una distopia fantascientifica che, come sempre, (ne avevo già parlato qui) non è altro che una metafora/allegoria della società moderna. Tipico di Miccol, dopotutto. Nome che nella memoria dei più – anche nella mia, a dirla tutta – prima di spulciare la pagina di Wikipedia, suonerà come sconosciuto, rimbomberà a vuoto tra i tre neuroni rimasti da uno dei tanti mercoledì universitari e si depositerà in qualche meandro, senza però restituire alcuna informazione. Ebbene, il qui presente Andrew Miccol ha scritto il soggetto di uno dei migliori film degli ultimi 30 anni (a dirla tutta, è tra i miei film preferiti, quindi direi anche uno dei film migliori di sempre), ovverosia The Truman Show; senza dimenticare la regia di Lord of War, una piccola perla che in gioventù ho visto e rivisto, con un finto piano sequenza iniziale davvero intrigante che segue la vita di un AK-47; e, ancora, è stato il regista di Gattaca, che è nella mia lista di film da vedere da ormai troppo tempo, e che credo guarderò non appena finito questo pezzo.

Concentriamoci allora sui primi due titoli, ovviamente sempre tenendo presente che il soggetto di tutto rimane il nostro In time.

In un futuro lontano ma non lontanissimo non esiste valuta, né conio che tenga. La nuova moneta è il tempo. Tutti hanno 25 anni +1, un anno bonus per poter cominciare a provvedere a se stessi. Si blocca in quel momento l’invecchiamento e, come in The lobster, non vengono ben specificate le modalità di funzionamento di questo sistema, che ci viene dato per assunto. Non è un particolare che dopotutto inficia la visione, bisogna pur sempre tener presente, nei film del genere, un certo grado di sospensione dell’incredulità, altrimenti non ci spiegheremmo come mai Jim Carrey/Truman non si sia mai accorto di 30 anni di riprese in diretta. Esistono varie zone nella città di Justin Timberlake/Will Salas, ognuna delle quali sempre più ricca, in stile Hunger Games. Ovviamente, il protagonista fa parte della più malfamata, del ghetto che vive alla giornata, grazie al lavoro operaio o alla microcriminalità, fino ad arrivare alle piccole bande. In questi Stati Uniti futuristici ma non troppo, tutto sembra girare intorno al tempo, ed è una cosa che, a ben vedere, ma solo ragionandoci a posteriori, lascia un po’ l’amaro in bocca, poiché sembra che quel mondo sia fatto solo di quello; per riportarlo a qualcosa di equivalente e direttamente esperibile per noi, è come se andando in giro per Pavia tutti parlassimo solo e soltanto di soldi. Cioè, lo facciamo ma ogni tanto ci infiliamo anche altri discorsi, cosa che invece manca in questa pellicola. Nonostante questa riflessione a freddo, non posso che dire che tutto questo parlare di tempo è sempre contestualizzato e mai forzato. Alla fin fine è come guardare Robin Hood e non voler sentire parlare di archi e frecce o di soldi rubati ai ricchi per darli ai poveri. E proprio di un moderno Robin Hood si tratta, in cui troviamo una lady Mariam che, invece di essere nobile, è soltanto figlia di un riccone, e viene interpretata da Amanda Seyfried. Questa, dopo un rapimento coatto, comincia a soffrire di una sorta di sindrome di Stoccolma e si innamora del suo aguzzino, rapita pian piano più dalla sua missione e dal suo fascino che dalla violenza. La ragazza si converte ben presto allo stile di vita precario e alla giornata, dove si corre fino agli ultimi secondi del proprio orologio e nulla deve essere sprecato. Tra incontri e scontri vari, riescono a mettere in moto una bolla economica che viene soltanto intravista, visto che prende vita negli ultimi secondi, e che è destinata a cambiare le sorti di quel mondo. Ma la missione dei novelli Bonnie e Clyde non è ancora conclusa, il sistema sta barcollando ma ha bisogno di un’ultima spinta, del fatidico soffio maledetto sul castello di carte.

La trama dopotutto è semplice, non ci sono chissà quali lampi di genio nella narrazione, ma di certo interessante è l’idea di fondo, la sostituzione dei soldi con il tempo. Se quest’ultimo è davvero ciò di cui più abbiamo bisogno, il regista sceglie di sfruttare una minaccia reale per veicolare un messaggio chiaro, esplicito ma pur sempre valido e pienamente condivisibile. Come dicevo prima, è tutta un’allegoria ben orchestrata sul come un mondo basato sul capitalismo darwinista sia profondamente sbagliato, tanto quanto quello che gira intorno al capitale, ovvero il nostro. Il messaggio è ancora più interessante quando si scorpora la proporzione: tempo sta a tempo come tempo sta a denaro (t:t = t:d). Ciò che voglio dire, ma che soprattutto viene espresso dal regista in maniera non troppo implicita, è che oggi spendiamo il nostro tempo per guadagnare denaro in modo che ci dia più tempo da vivere, così che possiamo reinvestire quel tempo per produrre altro denaro e accantonare altro tempo nella nostra banca. Nel film succede la stessa cosa, e, come nella vita vera, viene scambiato tempo per tempo. È una critica sociale quindi non solo ai soldi e al capitalismo senza senso, senza controlli e che fa progredire solo l’1%, ma si configura come un’invettiva all’intero sistema che non permette a nessuno, o meglio, a quasi nessuno, di gestire al meglio il proprio tempo, risucchiati come siamo ad investirne un po’ per procurarcene altro. Come in The Truman Show, la società è quasi intorpidita dalla realtà, come se tutto quello che gli venisse messo davanti fosse ormai un punto fisso e non modificabile, tutt’al più può rischiare di peggiorare. Truman si trova ad essere una vittima completamente involontaria di un pubblico pronto a sorbirsi qualunque cosa, un’audience che pur di non vivere la propria vita decide di sprecarla per vedere quella di un’altra persona. Là la critica era anche alla perdita di tempo dietro a questioni futili, oltre a quella ben più diretta alla TV spazzatura, alla mancanza di privacy e al controllo della società con mezzi tipici del soft power (prendiamo ad esempio la pubblicità al pomodoro durante una litigata). Sono critiche diverse, ma dirette sempre ad un torpore generale. In entrambe le pellicole però viene data una speranza, viene dato l’esempio attraverso protagonisti che, accorgendosi del marcio in Danimarca, cercano di sovvertire il sistema e ripristinarlo.

Per i canoni statunitensi, il film è profondamente socialista e giustizialista. La ridistribuzione del capitale/tempo non è una cosa che agli americani, basati su un welfare formato Paperone, viene spesso ribadita, nonostante ci sia chi tenta di muoversi in quella direzione all’europea (leggasi “obamacare”) e chi invece va verso il modello oligarchico russo (leggasi Trump e la riforma sanitaria che si arena e non convince neanche i suoi).

Detto questo, la regia tiene, manco a dirlo, conto dei tempi. I poveri corrono e infatti le scene sono dinamiche quando i protagonisti si trovano a corto di tempo mentre i ricchi vanno sempre con calma. Miccol ricorre qualche volta di troppo a leggerezze narrative quali il recupero di un po’ di tempo all’ultimo secondo, letteralmente. Dopo un po’ si finisce per dire “Eh vabbè, tanto mò recuperano di nuovo quelle due ore che gli servono”. Non di meno, si arriva alla fine col dubbio se quella volta ce la faranno o meno. Si tiene spesso conto di una costruzione dell’immagine che esalta la profondità, cosa messa in opera anche tramite un uso delle luci spesso posizionate in modo da tagliare per bene ogni figura. Vengono poi usati colori freddi quando si vuole dare un senso di calma, seppure momentanea o apparente, e di ordine. Mentre si hanno toni caldi e giallini nei momenti di fuga o più vivaci.

Non è un capolavoro ma il leitmotiv è interessante, lo svolgimento non annoia e acchiappa l’attenzione e i 109 minuti passano velocemente. Non è innovativo né completamente rivoluzionario ma ritengo che dato in pasto ad un pubblico adatto, e penso in tal senso ai ragazzi, insieme ad altre pellicole del genere (quali il sopraccitato The lobster), possa pian piano instillare nelle giovani menti un’idea della vita basata un po’ più sulla società come intero e non come lotta, né di classe, né egoistica.

 Per dirla con Nolan: dobbiamo iniziare a pensare non come individui, ma come specie.

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