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Le donne in una società smarrita: incontro con Vittorino Andreoli

di Erica Gazzoldi

La cara, vecchia lanterna con cui Diogene cercava l’uomo torna utile per cercare la società. Concetto fuori moda, dopo l’egocentrismo inaugurato dalla cultura psicanalitica novecentesca. A ciò si aggiunga il consumismo giunto col benessere, che sembra aver invaso campi non suoi, come quello dei sentimenti. Un’inversione di tendenza potrebbe venire dalla metà rosa del cielo. Ne ha parlato Vittorino Andreoli, il 15 aprile 2013, in una conferenza dal titolo Le donne in una società smarrita. L’argomento è stato scelto come omaggio all’istituto ospitante: il S. Caterina da Siena, collegio universitario femminile.
Andreoli, già direttore del Dipartimento di Psichiatria dell’Ospedale S. Giovanni Battista di Verona-Soave, ha lavorato a Cambridge (Regno Unito) e alla Cornell University (Stati Uniti). Le sue pubblicazioni trattano spesso di problematiche legate alla vita quotidiana e all’adolescenza. Ciò è dovuto anche alla consapevolezza di un confine sempre più labile fra “normalità” e “patologia”. Il positivismo di Cesare Lombroso e Leonardo Bianchi, da cui scaturì l’istituzione dei manicomi, concepiva il cervello come un “cristallo”: una volta rotto, non avrebbe più potuto adempiere alle proprie funzioni. Attualmente, la psichiatria vede il comportamento umano come influenzato non solo dalla conformazione cerebrale (legata al patrimonio genetico) ma anche dalle esperienze vissute e dall’ambiente (geografico e relazionale). Campo d’indagine degli psichiatri è il “cervello plastico”: quello che è in grado di modificarsi grazie agli input dell’esperienza. La società può influire sull’ “io” perché fonte di simili input: essa si compone di molte fragilità che si compensano reciprocamente. Nel “gioco delle reciprocità” hanno parte consistente certe differenze come quelle fra i generi e fra le professioni. Una mentalità esclusivamente ripiegata sull’ “io” ha fatto cadere la riflessione in merito.
Soprattutto, mentre debordano leggi (particolari e strumentalizzabili), è venuto a mancare un pensiero sui “principii primi”: quelli dai quali ogni etica e ogni legge dovrebbe partire. Andreoli li indica nel rispetto dell’altro e nella ricerca della serenità: una svalutazione complessiva della cultura umanistica li ha relegati in secondo piano. Mentre i finanziamenti all’istruzione pubblica vanno scemando, sono in auge tecnici ed economisti – tutto compatibile con una civiltà del “dio denaro”, in grado di signoreggiare anche sulla psiche («Ho visto persone malate di denaro…»). Cosa che va a braccetto coi complessi sul corpo e con la frenesia del potere («Il potere è una droga. Esiste anche un “lutto da potere”…»). Tutti questi malesseri infatti fanno capo a una “società della superficie”.
Davanti a tutto questo, Andreoli si appella a un’esperienza caratteristica del femminile in ogni epoca e cultura: la maternità. Essa è comunione fisica con l’altro; è conoscenza d’un tempo continuo, non segmentato; è bisogno di sicurezze e futuro. È esperienza di un’interdipendenza che non deve far paura, perché – dicevamo poc’anzi – dalle fragilità che si completano nasce la coesione sociale. A un “umanesimo del potere”, per cui l’ “altro” è oggetto sul quale affermarsi, l’inclinazione femminile a detta interdipendenza può contrapporre un “umanesimo della fragilità” inteso come sopra. Il bisogno di sicurezze implicito nella maternità sarebbe anche un buon incentivo a recuperare quei “principii primi” senza cui nessuna etica e nessun diritto possono dirsi solidi.

@EricaGazzoldi

2 pensieri riguardo “Le donne in una società smarrita: incontro con Vittorino Andreoli

  • Bell'articolo

    Davvero un bell’articolo, grazie Erica.

    Avevo avuto occasione di sentire Andreoli un paio d’anni fa in una conferenza al Collegio Nuovo, dedicata in quella volta al tema del denaro e al suo impatto nella psicologia. Conoscevo già in parte il suo lavoro, ha scritto libri divulgativi bellissimi su temi molto delicati, a partire dalla famiglia, dall’adolescenza e dall’importanza dei fattori umani nell’insegnamento.

    Sentirlo dal vivo in quell’occasione ha rafforzato la curiosità e l’interesso per i problemi di cui si occupa Andreoli, ma soprattutto per il suo approccio: poco clinico e invece molto umano, o umanistico, teso a vedere nella psiche una realtà che si plasma a partire dal contatto con gli altri, con la realtà, con le esperienze affettive. Una realtà “plasitca”, cioè modificabile e perciò curabile.

    Non so se ti è capitato, ma se ne hai occasione prova a dare occhiata a qualche suo libro. Tratta tematiche delicatissime con una leggerezza incredibile.

    Buon lavoro con i prossimi pezzi

    Tommaso Pepe

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