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L’attore idealista: il ricordo di James Stewart a 110 anni dalla nascita

In questo mondo, Elwood, devi essere o molto astuto o molto amabile. Io preferivo l’astuzia, ma consiglio l’amabilità”. Così dice il dolce Elwood P. Dowd, interpretato da James Stewart nel gioiello di Henry Koster Harvey (1950), e forse non esiste frase più efficace e commuovente per cogliere lo spirito dell’attore americano, sia dentro che fuori dal set. Nato a Indiana (Pennsylvania), nel 1908, Stewart avrebbe compiuto 110 anni proprio oggi ed è stato amato, come pochi, dal suo pubblico e dalle persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, prima che spirasse nella sua casa di Beverly Hills, il 2 luglio del 1997. Tutt’ora ricordato come uno degli attori hollywoodiani più apprezzati di sempre tanto dal punto di vista artistico quanto da quello umano ha legato la sua fama non solo a un enorme talento recitativo e a una impressionante serie di pietre miliari del cinema, ma anche all’aver portato in scena una rara tipologia di attore. James Stewart non era Cary Grant, con il quale lavorò nella commedia di George Cukor Lo scandalo di Filadelfia (1940), aggiudicandosi l’Oscar al migliore attore. Non era la classica star hollywoodiana con l’aria del playboy sofisticato e un po’ cinico, né tantomeno il duro tracannatore di whiskey alla Bogart o alla Wayne, ma un individuo dal volto ordinario di cui il technicolor rivelerà gli splendidi occhi azzurri troppo alto e troppo magro, inizialmente anche un po’ goffo, remissivo, nonché musicalmente stonato per raggiungere un immediato successo. Il suo charme era piuttosto quello di un uomo dalla solida fibra morale, la cui eleganza scaturiva dalla dignità di uno stile recitativo sobrio ma al tempo stesso appassionato, dal gesto signorile ma senza affettazione. Un attore più umano e concreto di molti della sua generazione, che alla fine degli anni trenta trovò terreno fertile nei personaggi idealisti di Frank Capra: il sognatore Tony de L’eterna illusione (1938), il combattivo Jefferson Smith di Mr. Smith va a Washington (1939) e George, il padre di famiglia in bancarotta de La vita è meravigliosa (1946).

32963691_10208982539000151_6371788711822098432_nMa se il suo nome è stato spesso associato alla figura dell’uomo ordinario – Hitchcock lo amava per questo –, ciò non è del tutto vero. Stewart, al pari delle altre grandi celebrità cinematografiche, ha comunque incarnato un modello per il proprio pubblico e per gli Stati Uniti. Si tratta solo di un modello differente rispetto agli altri, più realistico e umano, e perciò capace di suscitare una maggiore empatia nello spettatore. Gli esempi offerti dai suoi personaggi sono veicolati tanto attraverso l’azione come negli eroici western di Anthony Mann , quanto tramite la parola e la presa di coscienza, gli strumenti in possesso dell’uomo di pensiero e di cultura scagliato in un mondo violento e brutale, come accade al professore Rupert Cadell di Nodo alla gola (1948) di Hitchcock, o all’avvocato Ransom Stoddard nel crepuscolare L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di Ford. Proprio in quest’ultimo, Stewart esemplifica al massimo i valori di democrazia e filantropia di cui si fa portavoce, in opposizione alla visione di Tom Doniphon, interpretato dall’altro baluardo americano John Wayne. E a differenza di quest’ultimo, considerato la grande star del western e dei film bellici, Stewart la guerra l’aveva combattuta davvero, arruolandosi come aviatore nella Seconda guerra mondiale, spinto da un senso del dovere che gli valse numerose onorificenze militari. Una passione quella per il volo che gli permise di vestire i panni dell’aviatore Charles Lindbergh senza bisogno di controfigura nel film L’aquila solitaria (1957) di Billy Wilder.

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Un uomo rispettabile e un umile eroe di guerra che però, guidato tra le spire vertiginose del miglior Hitchcock, ha anche saputo mostrarci i lati più inesplorati della nostra psiche, regalandoci l’impareggiabile parabola ossessiva di Scottie ne La donna che visse due volte (1958) e le succulente pulsioni voyeuristiche di Jeff ne La finestra sul cortile (1954), attraverso i ritratti di un’umanità fragile e inconscia. Nella sua filmografia, costituita per lo più da personaggi positivi, non mancano nemmeno figure piuttosto ambigue, come l’avvocato Paul Biegler nel controverso legal drama di Otto Preminger Anatomia di un omicidio (1959), che valse all’attore la sua quinta nomination all’Oscar per il miglior attore e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile al Festival di Venezia del 1959. Memorabile inoltre la figura del clown Buttons ne Il più grande spettacolo del mondo (1952) di Cecil B. DeMille, in cui Stewart riesce a emozionare con il perfetto modello di clown malinconico, senza mai mostrare il proprio volto celato dal trucco, eppure talmente mobile ed espressivo.

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Molti sono i ruoli con cui James Stewart ha saputo conquistarsi l’affetto degli spettatori e entrare nella Storia del cinema, tanto che diventa difficile stilare un’ipotetica classifica. Probabilmente l’interpretazione di Scandalo a Filadelfia, con cui si aggiudicò l’unico Oscar – escluso quello onorario del 1985 –, non sarebbe tra le primissime posizioni. Stewart invece amava molto lo stralunato zio Elwood di Harvey, probabilmente consapevole di quanto potesse essere di esempio quella figura e perciò così centrale nell’arte di un uomo che ha voluto fare di sé, a partire dalla propria vita, un modello di integrità e gentilezza, oltre che di eccezionale professionalità.

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