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L’Amleto di Michele Sinisi: un dramma per sé

Un Amleto ridotto all’osso, solo, rabbioso. Una tragedia capace finalmente anche di far ridere, lì dove troppo spesso si commette l’errore di rendere seriosa, stantia e sterile l’energia dell’opera.

Questo è il risultato dell’inventiva di Michele Sinisi: un Amleto onnisciente, unico corpo di un racconto da lui stesso ordito, di un’azione scenica che è un pezzo di bravura, in cui l’attore mette carne, sudore e voce su una scena scarna. Finiamo così per sentirci invitati nella camera di Amleto, in cui egli recita con l’aiuto di una radio, un vaso di fiori e qualche sedia, ognuna un personaggio il cui nome è indicato da una scritta rossa sul dorso. Recita per un pubblico, ma soprattutto per se stesso, la sua trama, il suo piano, la sua realtà dove ormai i personaggi sono ridotti a spettri, burattini, attori di un regista esigente che nutre un estremo bisogno di rappresentare ed elaborare il suo dramma.

Quello che ci accoglie è un Amleto clownesco, dotato di un’ironia e di un sarcasmo arroganti; un Amleto-attore e parodiante di una storia portata avanti fino allo sfiancamento, in un gioco profondamente meta-teatrale in cui i confini tra l’io e l’altro, tra chi si è e chi si diventa e agisce, sono confusi: Amleto ha bisogno di ripetere di continuo di essere Amleto, per non perdersi nella sua azione teatrale in cui sfoga una rabbia dolorosissima sempre in equilibrio conflittuale con un’energia dirompente, una forza inquietante. Rimane intatto il monologo dell’ Atto III, ma l’emblematica domanda «Essere o non essere?» si palesa anche altrove e finisce per rimbalzare e risuonare in ogni gesto, in ogni voce del gioco di ruoli costruito per ribadire un’esigenza di verità.

Amleto inventa di fatto un mondo che è immagine della straziante condizione in cui è il solo ad essere, e non sembrare, in una prigione di personaggi che hanno solo l’abito del lutto e della virtù. E dove alberga il dramma di Amleto se non nell’accorgersi di questa falsità, nella decisione di farsi specchio del marcio altrui e di esibire onestamente il proprio, fino alle estreme conseguenze?

Per questo l’Amleto di Michele Sinisi esige di essere ascoltato, mentre la sua anima cerca di liberarsi e perdonarsi, rimanendo invece invischiata in gesti meccanici e ripetitivi. Fino alla fine, quando, dopo la strage che gli si crea intorno, sembra venire a patti con il suo destino, con la madre e perfino con lo zio; per poi addormentarsi, o morire, o sognare ancora lo stesso gioco.

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