A LabArca, il sole splende per Molli
Con incedere lento, la Molli cauta avanza. Sembra incerta, scossa, come risvegliata da un pesante torpore. È in dormiveglia, il limbo tra l’alba del giorno e il dominio audace della notte. Con voce graffiante e cupa, il dialetto delle fabbriche milanesi durante il boom alternato a inflessioni meridionali, Marion “Molly” Tweedy ci racconta del primo spasimante, e i ricordi si affastellano uno dopo l’altro.
A LabArca, Arianna Scommegna diffonde una malinconia feroce e disarmante. La sua Molli, nel silenzio della stanza da letto, non è mai realmente sola: in uno spazio teatrale modesto, perfetto nella sua intimità, l’attrice conversa animatamente e interagisce in modo lucido con i corpi in penombra. Amica di vecchia data, racconta stancamente le vicissitudini ormai lontane: i tradimenti, il sesso che è “una necessità per loro”, le compensazioni materiali effimere, il viso senza rughe e la freschezza delle lolite seducenti. Tra la blasfemia e l’erotismo logoro di una donna che trae una gioia istantanea nel sentirsi desiderata, ritorna il pozzo profondo negli occhi della Molli quando ripensa al suo Leopold Bloom, Poldi, Poldi che “sa come si trattano le donne”.
Il monologo solletica gli istinti e accarezza la compassione: la femme fatale dal vestito di seta bronzea fa autoironia dipingendosi tra giovinetti inesperti, uomini aitanti, corpi nudi vestiti di un solo calzino; eppure il dramma è alle porte, non bussa ma spia, si diluisce nella nebbia e attraversa lo spioncino trasformandosi in goccioline che scrosciano tutte assieme. Improvvisamente, il sarcasmo cinico e la battuta sprezzante diventano lacrime. Arianna Scommegna piange e commuove in un istante, rivelando in quegli occhi di buio tutta la solitudine che lei aveva esorcizzato e noi soltanto intuito.
La Molli joyciana è una vita e tutte le vite: la pièce a cui Arianna e il Gabriele Vacis hanno lavorato tratta il testo dell’Ulisse rispettandone le intenzioni più sincere e lo stile, rimodellandolo con la pasta dei clichés più noti, usando la tempera dei piccoli patetismi che accumuliamo giorno dopo giorno. Fedeli all’autore irlandese, adattano i riferimenti topografici e temporali rendendo il testo attualissimo anche nella derisione della dimensione erotica quando, priva di sentimento, è esautorata di ogni valore sostanziale: è la voglia che corrode, che consuma e si consuma. Questo desiderio di godimento è primario, sottomesso all’urgenza dell’istinto, e nonostante conduca la Molli ad accumulare una serie di mancanze incolmabili, c’è nella donna una sorta di coazione a ripetere compulsivamente le esperienze a volte insignificanti e altre dolorose; il desiderio sessuale si traduce in un Niente che ribadisce sé stesso finché il suo dominio non viene contrastato dalla presenza dell’Altro, il Poldi oggetto di Amore.
Il monologo è un flusso di coscienza che scorre indomito riempiendo la stanza, portandoci per mano nel caldo asfittico del metrò, amplificato dalle vampate della menopausa, poi dal parrucchiere, poi in Gibilterra, in un crescendo di entusiasmi spenti. In cima, torna la voce calda e la paura nera di indugiare nel senso di disfatta: in un disperato tentativo di leggerezza, Molli comincia ad ammiccare e intonare il repertorio popolare italiano perché le canzoni le restituiscono il fiato, le riportano l’oceano negli occhi. Ogni frase è intesa come una resurrezione inaspettata, per rivivere tutto come fosse la prima volta, e si sbarazza dei “potevo”, “avrei dovuto”, “avrei fatto”, per convincersi che tutto può cambiare ancora.
A volte non le basta. Nella notte lunga, il matrimonio diventa una galera. Il desiderio di una Vita Nova diventa ossessivo. Molli vuole riconoscersi come essere in continuo divenire e tuttavia le pareti della cella le si stringono attorno: sarebbe il momento di rompere il flusso dei fotogrammi, per desiderarsi come la prima volta, per tornare ad entusiasmarsi dopo le cadute e ad accelerare per interrompere la stasi.
Fino alla Morte, la donna che più delle altre la tormenta. La Morte nel matrimonio, la Morte del bambino in grembo, la Morte della Vita come te l’eri immaginata. Ma nell’impeto finale il regista indugia sui porti, sulle rose nei capelli, sulla dolcezza dei fichi e la limpidezza del torrente, sui petti che si avvicinano per scegliere Poldi che ha capito: Molli è la galassia tra i rododendri. Infine i “sì lo voglio”, lo voglio ancora, lo voglio per sempre, voglio vivere.
La Molli della Scommegna è Terra, è carne e sangue, è il mondo sporco e il modo per fuggire. Fa tutto con la voce, scimmiotta, usa gli acuti, fa le parodie, deforma la bocca le guance il viso e gli occhi. Occhi che hanno visto e assorbito, e rimandano tutto il bello e il brutto di associazioni libere di pensiero che consentono alla Molli di parlare a Nessuno e a Tutti appellandosi ad uno stadio quasi preconscio. Quando cade il buio su Arianna, ti senti da solo. Molli ti manca. E vorresti sentirla parlare ancora di sé, ancora di te.