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La struttura scheletrica di “Coco”

Poche cose sono più insopportabili di un messaggio all’interno di una storia. Nella ossessiva ricerca del significato di un racconto si rischia di perdere di vista la realizzazione armonica dell’opera, la quale, se ben realizzata è irriducibile a qualsivoglia sintesi attualizzante. In quella che forse è la loro fatica più coraggiosa di sempre la Pixar ha voluto sfidare pressoché tutte le convenzioni narrative classiche, vincendo alla grandissima, per regalarci una storia priva di qualunque messaggio o “morale” ma che ha nel suo stesso svolgimento tutta la portata trascendentale che si può chiedere a un film per famiglie.

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Miguel è un ragazzino di 12 anni con la passione per la musica ma la sua famiglia non approva questa sua vena artistica a causa di un passato doloroso. La sua insistenza lo porterà a scontrarsi con un mondo, quello dei morti, che vive letteralmente di ricordi. Con l’aiuto di Hector, un musicista semi-dimenticato e di Dante un adorabile e pasticcione cane nudo messicano, il nostro Miguel si imbarca in una catabasi dalla quale “uscirne vivo” non basterà. Le scelte compiute dal protagonista e gli ostacoli sul suo cammino hanno la forma di una composizione circolare dove la scoperta e lo svelamento, conditi da una sana dose di stupore e umorismo, sono funzionali a una presa di coscienza cinematograficamente inflazionata ma mai banale e cioè: quello che cerchiamo è sempre più vicino di quel che pensiamo. Ma a essere pienamente onesti Coco non è del tutto inedito, neanche all’interno della Pixar stessa. Di fatto stiamo parlando di un ritorno della contrapposizione bambino/anziano che già ci aveva devastati nel 2009 con Up (di Pete Docter e Bob Peterson). Qui l’incontro e scontro tra i due universi ritorna più roboante che mai, complice anche un contesto famigliare (e familiare soprattutto per noi italiani) variegato e ben articolato, grazie anche a dei disegni al computer a metà tra la caricatura e il dipinto (specialmente nei colori). Ma se in Up quella del protagonista è una presa di coscienza forte e ottimista allo stesso tempo, in Coco è la tristezza a fare da padrone nel percorso di redenzione, svelamento e perdono (soprattutto il perdono). Quella stessa, identica Tristezza che avevamo imparato ad amare con Inside Out (Pete Docter e Ronnie del Carmen, 2015) e che qui si ripropone nelle calde e non a caso malinconiche melodie messicane. Ma non solo le tematiche, anche le scelte narratologiche devono molto al predecessore del 2009; proprio come in Up lo spettatore è educato nella maniera più dura a riconsiderare il proprio punto di vista (e la propria fiducia empatica) nell’ultimo atto, nel quale i prestigiatori al timone della Pixar svelano tutti i loro trucchi e ci ammoniscono contro i pericoli della mitizzazione.

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In cosa allora il film Lee Unkrich (Toy Story 3, 2010) si differenzia da Up e da tutto ciò che la Pixar ha fatto finora? Semplicemente (se così si può dire) nell’unica cosa in cui la Pixar è ancora adesso insuperata e insuperabile: la costruzione di mondi. Vuoi grazie ai prodigi della tecnologia grafica o al talento dei disegnatori e (in questo film più che in altri) dei musicisti, Coco possiede un’anatomia emotiva mai vista prima (sì, nemmeno in Inside Out) dove ogni colore, nota, verso o sfumatura si colloca perfettamente nel nostro immaginario empatico. Proprio come una canzone Coco ha qualcosa da dire a tutti e qualcos’altro da condividere con ciascuno. Il film è facilmente uno dei migliori della Pixar grazie solo alla trama ben scritta ma è nella realizzazione tecnica che questa volta gli studios si sono superati andando a confezionare un prodotto impeccabile (le rughe di Coco sono qualcosa di sublime). Nel suo equilibrio visivo Coco accontenta sia lo spettatore occasionale sia quello più raffinato, rendendo giustizia a una cultura, quella messicana che vive di colori e suoni, troppo spesso oscurata da una cattiva (e purtroppo non infondata) reputazione. Proprio la reputazione in effetti in questo film è l’antagonista principale, una reputazione buona e condivisa contrapposta alla dimensione più intima e soggettiva del ricordo. Laddove la reputazione, buona o cattiva che sia, è indice di un’esistenza passiva, il ricordo e la memoria sono invece indicatori di una vita attiva e impermeabile all’oblio. Ma non ingannatevi, questo non è il messaggio del film. È molto di più: è la sua stessa struttura o se preferite il suo stesso scheletro.

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Extra – Frozen: le avventure di Olaf

La scelta di inserire un corto di 20 minuti appena prima di un film di un’ora e cinquanta si può riassumere in una parola: inspiegabile.

Il corto in sé comunque merita una valutazione a parte, scevra da ogni logica di distribuzione: inguardabile.

Quello che poteva essere al massimo un delizioso contenuto speciale di un DVD ha invece preso il posto in maniera ingiusta dei meravigliosi corti con i quali la Pixar ci delizia da più di vent’anni. Semplicemente inappropriato.

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